domenica 1 giugno 2025

A PIEDE LIBRO n.112 - Al di là della Grande Muraglia - Mario Appelius - Prima parte

A PIEDE LIBRO n.112
Intima ed irregolare rubrica Libraria - Anno V

(prima parte)

AL DI LÀ DELLA GRANDE MURAGLIA 

“Con questo volume su alcune regioni dell'Asia poco conosciute intendo chiudere la serie dei miei libri di viaggio per dedicarmi, in seguito, interamente, alla forma d'arte narrativa che più mi seduce: il romanzo”. 

Era il 1940 e Appelius dopo decenni e decenni di viaggi forsennati per sbarcare il lunario, come inviato o turista – scrittore, sentì il peso della stanchezza e dell'età. Aveva deciso di stabilizzarsi una volta per tutte e un rapporto sentimentale con una giovane ragazza spagnola, figlia di un suo collega ammazzato dai rossi nella guerra civile di Spagna, lo aveva convinto finalmente a fermarsi e a rifiatare.  

Il primo di questa tipologia di libri risaliva a “La Sfinge Nera” uscito nel 1923, dedicato ad Arnaldo Mussolini, il quale, intuendo le qualità fuori dall'ordinario di Appelius, lo aveva assoldato per il giornale “Il Popolo d'Italia”.  

Stavolta l'impresa del giornalista si focalizzò sul cuore della grandiosa ed oscura Asia: Cina, Mongolia, Corea e ancora Giappone. 

La vasta ed immensa Cina aveva mantenuto la sua grandezza fintanto che la “protezione” e l'“isolamento” della Grande Muraglia di 3.300 chilometri, voluta dall'Imperatore Cin-Huang-Ti della grande dinastia Cin, aveva funzionato, proteggendo e rafforzando i 400 milioni di cinesi dai cosiddetti “barbari”, ora invece la Cina aveva delle grosse ed evidenti difficoltà di “assestamento”. 

Non sempre i muri sono un ostacolo come invece vorrebbero farci credere oggi, nel caso specifico  furono “l'imperialismo inglese” e il “mercantilismo nord-americano” ad abbatterlo dal XIX sec., con la complicità di una assenza di poteri o grazie a politici come Ciang-Kai-Scek che si erano illusi di poter “creder nell'Occidente contro l'Oriente” ossia contro il Giappone. 

”L'avvenire della Cina è avvolto nel mistero” poiché l'Occidente aveva contaminato il Paese che aveva tentato inutilmente di opporsi con la forza, meglio aveva fatto il Giappone che invece si era chiuso a riccio preservando la propria identità, però in fin dei conti la “razza bianca deve avere il coraggio di riconoscere che ha vinto in America, in Africa ed in Oceania ma che ha perduto la partita in Asia, almeno nell'Asia Orientale”; la stessa URSS “torna ad Occidente perché non è riuscita ad andare avanti in Oriente” e si rilanciava “verso la Polonia, verso la Finlandia, verso la Romania, facilita anch'esso il programma imperiale del Giappone”.

Dalla Cina il passaggio, quasi obbligato, lo condusse alla misteriosa Mongolia, “aspra, pietrosa, pastorile, guerriera, sacerdotale”, composta da alture e immensi pascoli, panorami spettacolari, abitata da tribù e da un numero imprecisabile di persone, colpita da un freddo che poteva far scendere il termometro a – 50 gradi, una terra battuta e occupata da una parte dai sovietici, che in quanto ad imperialismo riprendevano tutto sommato i piani della Russia zarista, dall'altra dai nipponici. 

A Kalgan: crocevia commerciale delle carovane dell'Est l'aria era rarefatta, “si ha l'impressione di trovarci in un laboratorio della specie nel quale le razze si amalgamano dolcemente una nell'altra, le usanze si mescolano e si fondono; Budda, Brama, Maometto trovano un punto di contatto materiale e di buona intesa filosofica” e dove i giapponesi si erano stabiliti militarmente. 

Da Kalgan a Ta – Tung, la antichissima capitale imperiale nello Shansí cinese, e poi alle Grotte Yun – Kang, luogo “pietroso, arido, giallastro”, qui erano passati per secoli e secoli mistici, santoni, filosofi e tantissimi altri e qui si trovavano centinaia e centinaia di caverne pronte ad ospitare i pellegrini e un numero inestimabile di Budda, di peso e grandezza variabile, frutto di artisti non sempre tali. Il viaggio proseguì nei più reconditi posti della affascinante Mongolia, sulle strade di Gengis Khan e di Tamerlano in uno “sterminato paesaggio piatto, bigio, polveroso, flagellato dal vento, dominato dalla solitudine, insidiato dalla guerra, con le torri di vedetta disseminate a perdita d'occhio”.

Non sembravano così lontani i tempi delle incredibili conquiste di Gengis – Khan di quasi 8 secoli prima, quando il “ceppo mongolo si innesta in quasi tutte la razze dell'Asia e dell'Europa. 

Ad osservare dall'alto il fenomeno mongolo si ha l'impressione che in un dato momento l'istinto di conservazione della specie abbia generato questo improvviso, travolgente rinnovamento della razza bianca con una potatura violenta e con l'innesto di un poderoso sangue barbarico, fornito dalla grande Madre originaria, l'Asia!”; l'espansione diretta verso tutte le direzioni fu fermata soltanto allorquando Altan – Kan divenne buddista grazie al monaco Arik Lama. 

A quel punto la “razza si sterilizza, si abbioscia, si effemina. Dopo un po', la Cina conquista, senza colpo ferire, la Mongolia”. 

Ora era arrivato il momento dei bolscevichi che abbattevano monumenti e conventi e che stavano sconvolgendo gli assetti sociali, occupando territori su territori, dopo un accordo diplomatico sottoscritto con la Mongolia nel 1922, e quello dei giapponesi molto più cauti e moderati nell'occupazione e che dopo aver creato il Manciu Kuò preparavano il Mongol Kuò e al contempo tendenzialmente progettavano una Cina suddivisa in tre parti, quella del nord, quella centrale e quella del sud, riattivando, non senza rischi, il nazionalismo cinese in funzione anti-britannica e anti-sovietica; soprattutto i giapponesi erano là pronti, attendevano che scoppiasse un qualche  conflitto tra sovietici e cinesi per porsi al fianco di questi ultimi. 

Il Nippon aveva le idee chiare in quanto a politica estera, voleva sganciarsi dal giogo anglo-sovietico-americano e quindi le decisioni che prese furono quella di lasciare la Società delle Nazioni, comandata notoriamente dagli inglesi,  quella di proclamare la nascita del Manciu Kuò e l'altra di avanzare in Mongolia anche per contrastare i russi che dopo il conflitto cino – giapponese avevano allungato di molto il passo nell'Asia centrale.

Il viaggio procedette verso il monumentale complesso di templi buddisti di Pai-Li-Miao dove si poteva osservare il “Budda Vivente”: “la Tradizione tibetana (Mahayana) vuole che Budda, per aiutare gli uomini con l'esempio e con la predicazione sulla via del perfezionamento, proietti sulla terra un suo corpo appariscente – il 'tulkú' – il quale segue il grande ritmo naturale delle nascite e delle morti trapassando dal 'tulkú' che si estingue al 'tulkú' di un bimbo che in quel momento nasce. Il 'tulkú' è in sostanza un «Bodhis attiva» che si è incarnato per il bene degli uomini”.

Vicino al ruscelletto Geòl, oggetto del contendere che aprì un contenzione proprio tra il Giappone e la Società delle Nazioni subito dopo l'occupazione nipponica della Manciuria, prontamente super – industrializzata, si ergeva la Città Imperiale, costruita sul modello di quella di Pechino: uno sfarzo di meraviglie e lussi oramai in decadenza e poi una infinità di templi su templi, “L'Intera Cina è un immenso sfasciame di belle cose che crollano, che imputridiscono, che scompaiono”. 

Appelius un salto nella Manciuria, ricca di materie prime e con 35 milioni di abitanti, non poteva perciò non farlo. 

Lì di istanza vi erano le migliori truppe giapponesi e sempre là era stato sepolto il fondatore della grandiosa dinastia Cing, l'Imperatore Taitsung. Hsinking era il centro nevralgico ma in generale l'intera regione era depurata dalle influenze americane ed europee, “è in fondo un esperimento asiatico fatto programmaticamente senza i bianchi ed al di fuori dei bianchi”, insomma era l'esatto opposto di Sciangai: “Si tratta di un esperimento politico, militare, economico e razziale, destinato ad avere un'importanza decisiva sulle fortune del Giappone e sull'avvenire storico dell'intera Asia”. 

Ad Harbin la bella città della Russia degli Zar: un centro moribondo, in rovina, i fasti di un tempo erano solo un ricordo confermato dalle splendide ragazze russe costrette alla prostituzione per fame e che in quei posti erano dovute rimanere, schiacciate dalla rivoluzione bolscevica e dall'arrivo dei giapponesi in città, dove si poteva ascoltare gli straordinari racconti degli ufficiali della Russia Bianca che avevano combattuto contro l'Armata Rossa. 

Da Harbin il viaggio andò avanti lungo l'impervio confine con la Siberia, dove era piuttosto facile beccarsi una pallottola perché tra sovietici e giapponesi si sparava, eccome se si sparava anche perché i sovietici di nascosto e al buio della notte provavano a rubare fazzoletti di terra ai loro confinanti. 

Diceva un proverbio siberiano: “Il freddo ammazza l'uomo, la vodka ammazza il freddo”, il gelo durava 230 giorni l'anno eppure la vasta area offriva ampi spazi di ricchezza, ma in quei posti si poteva morire appunto pure per altri motivi, “La guerra è nell'aria, negli uomini, nelle cose”; in Siberia i sovietici avevano apportato dei grandi mutamenti e realizzato grandi impianti, e sensibili modifiche sul piano agricolo – economico e persino umano con lo scopo di puntare verso la Mongolia e la Cina, ma i giapponesi avevano costituito uno sbarramento non facilmente abbattibile, dunque le mire espansionistiche sembravano essersi spostate più verso il proibitivo sud dell'Asia.