Intima ed irregolare rubrica Libraria - Anno V
(Prima parte)
Nella teoria promise il migliore dei mondi possibili, in pratica fece il contrario esatto di quel che aveva promesso: il COMUNISMO è stato l’inganno più grande della storia moderna.
Il germanista e storico Massimo Ferrari Zumbini torna con una sua pubblicazione, stavolta con un numero limitato di pagine, per descrivere la bugia delle bugie del secolo scorso e che tuttora in malo modo, o in modo perfino degenerato, viene subdolamente propagandata.
No! Non fu “una delle più belle avventure della storia dell’uomo”, come si legge in quell’osceno e recente libro rivolto addirittura ai ragazzini, intitolato “Il comunismo spiegato ai bambini capitalisti” e scritto dal signor Gérard Thomas, un intellettualoide con evidenti problemi di sanità mentale.
Il Comunismo fu un inferno per tanti e lo fu per non poco tempo della sua messa in pratica. Come tali, i fasulli comunistoidi dalla vita comoda dei giorni nostri, chiaramente, hanno la scusante di peccare di ignoranza oppure una scusante non ce l’hanno neppure perché in malafede, ma in questo secondo caso potrebbero esser perdonati lo stesso perché ovviamente deficitano in modo grave di lucidità, di comprensione, di ricettività e di capacità analitica.
Lenin e Stalin: da qui si parte, perché è da qui che partì tutto se si parla di ‘socialismo reale’.
La storia del bolscevismo la conoscono tutti, non rifarò certo qua la cronologia di quel grande, complesso e terribile fenomeno politico che imbambolò, illuse, perseguitò, eliminò, schiavizzò le masse; quel che invece cercherò di fare è di rilevare l’aspetto fondante di questa ideologia: la brutale violenza.
“La rivoluzione non è un pranzo di gala” ed aveva ragione Mao nell’affermarlo anche perché nessuno penserebbe di rivoltare il mondo con offerte di fiori e galateo alla mano, ma qui il punto è un altro perché la violenza portata alle sue estremità fu invece l’essenza del comunismo.
Già Marx in principio era stato esplicito: “soltanto con il sovvertimento violento di ogni ordinamento della società esistito finora” si poteva rivoluzionare il mondo.
Con Lenin i motti di “Lotta implacabile” al capitalismo, di “lotta senza quartiere al socialismo” ovverosia contro i socialisti riformisti, definiti sprezzantemente social-democratici, e di “lotta senza pietà” contro la classe contadina diventarono la normalità.
Fin dal 1908 Lenin aveva parlato senza mezzi termini: “la rivoluzione sarà una guerra disperata, sanguinosa, di sterminio” e a condurla non avrebbe dovuto essere più il popolo come aveva sostenuto Marx, ma una elite di “rivoluzionari di professione”, per questo motivo ordinò la centralizzazione, la gerarchizzazione e la militarizzazione del partito che doveva condurre alla “dittatura del proletariato” e che al contrario fu sempre dittatura di pochi.
D’altra parte nel raggiro verbale i comunisti furono sempre molto capaci, perfino la parola bolscevico (‘maggioritari’ all’interno del Partito operaio Socialdemocratico Russo) corrispose ad un falso durato anni, perché in realtà ad essere spesso maggioranza nei congressi di partito e nei Soviet furono i socialisti di varia specie e non i leninisti.
L’artifizio terminò soltanto nel 1917, quando Lenin scrisse le sue “Tesi di aprile” durante il ritorno in Russia, dopo un non breve esilio in Svizzera, mentre il conflitto mondiale infuriava, in ogni caso imbrogli e stratagemmi ben poco leali contro i menscevichi e i socialisti rivoluzionari proseguirono sino alla conquista del potere, che avvenne poco dopo.
Fu proprio nella guerra mondiale che Lenin vide finalmente la possibilità di scatenare una feroce “guerra civile”, strumento necessario per imporsi a tutti i costi; costosi invece non furono i tanti favori e i generosi incassi di denari che lui e i suoi percepirono grazie al nemico tedesco, il quale in questo modo, sovvenzionando la rivolta russa, pensava di far crollare il fronte dell’est.
Lenin non si faceva scrupoli e non se li faceva neppure quando aizzava i soldati russi a sparare ai loro ufficiali nel pieno della Grande Guerra. L’efferatezza naturalmente deflagrò con l’avvicinarsi della Rivoluzione e con la sua messa in atto.
Se Trotski urlava ai socialisti “Siete dei miserabili in bancarotta, il vostro compito è esaurito. Ritiratevi lì dove è ormai il vostro posto: nella spazzatura della storia” e dichiarava la sua volontà di “fare a pezzi” la borghesia, Lenin parlava di “traditori del proletariato”.
La Rivoluzione d’Ottobre fu il pretesto per fare un grosso repulisti e fu una rivoluzione eseguita da una minoranza agguerrita, ma poi la propaganda sovietica la trasformò in una liberazione alla quale il popolo partecipò numeroso.
L’ennesima balla che fu presa per buona. Lo scioglimento forzato dell’Assemblea Costituente, nata sotto il precedente governo Kerenski, unico organo temporaneo eletto democraticamente, in cui ancora una volta i comunisti si ritrovarono ad essere minoranza imponendo la chiusura di questa esperienza democratica; la fondazione della terribile polizia Ceka alla quale fu lasciata mano libera per imprigionare, torturare ed eliminare e una serie di decreti relativi alla nazionalizzazione degli istituti bancari e finanziari, agli espropri generalizzati, ai divieti di compravendita, alle limitazioni al commercio, fino allo svuotamento dei denari della banca di Stato, utilizzati anche per armare il Paese e il partito ecc., furono le prime mosse di Lenin che andava blaterando ripetutamente: “abbiamo fatto la volontà del popolo”.
Un altro decreto dette la possibilità alle guardie rosse di portare a termine “esecuzioni sul posto” per gli “speculatori, teppisti e agitatori controrivoluzionari”, al di là di ogni minimo e basilare diritto umano, mentre si facevano cadere nel vuoto le richieste di pacificazione dei socialisti. Il 15 luglio 1918 lo Zar e la famiglia furono barbaramente uccisi, altri familiari sparsi per il Paese furono eliminati in quelle ore, non si guardò in faccia a nessuno, vecchi, bambini, donne furono ammazzati, il copione fu sempre quello che i bolscevichi prima e dopo continuarono ad adottare: mentire, mentire spudoratamente come in tante altre vicende e anche in quell’occasione fecero lo stesso; dissero che la famiglia reale era stata trasferita e messa al sicuro, un ritornello ripetuto per anni, fin quando nel 1926 le notizie iniziarono a trapelare all’estero.
A quel punto non si poté più continuare a raccontare il falso.
Intanto Lenin ordinava ai suoi sottoposti della provincia di Penza di trovare “uomini più inflessibili” per soffocare le ribellioni dei kulaki “senza pietà […] impiccate pubblicamente non meno di cento kulaki […] Rendete pubblici i loro nomi […] Giustiziate gli ostaggi […] Fate sì che per centinaia di chilometri tutt’intorno la gente possa vedere, tremare, sapere e piangere”; era l’agosto 1918 e Lenin pareva colpito da un’ira incontrollabile: “Il kulak detesta furiosamente il potere sovietico ed è pronto a strangolare e a massacrare centinaia di migliaia di operai […] Non ci possono essere vie di mezzo […] A morte!”, il problema però è che i kulaki non erano soltanto i grandi proprietari, ma potevano esserlo tutti i contadini che avevano anche delle piccole proprietà e che si ribellavano al primo rappresentante di partito che si presentava e portava via loro quel poco che avevano.
Ne conseguirono impiccagioni ed esecuzioni pubbliche, sequestri di ogni bene, villaggi interi furono dati alla fiamme ad opera anche dell’Armata Rossa mobilitata per sedare con violenza le sedizioni di qualsiasi entità. Le minacce e la messa in pratica di queste minacce erano sempre più all’ordine del giorno. Ridurre alla fame il nemico o interi popoli poteva essere un’arma straordinaria e le varie carestie che avvennero negli anni a seguire ne furono una dimostrazione, allora ecco che Lenin anche su questo punto formulava le sue intimidazioni e i suoi piani di eliminazione: “Se voi sfruttatori farete il minimo tentativo di resistere alla rivoluzione proletaria, vi schiacceremo senza pietà, vi priveremo di ogni diritto o peggio, vi negheremo il pane” e con quel “voi” intendeva i borghesi, altra categoria non sempre dai confini ben delimitati e nella quale potevano caderci in molti, tutti quelli che faceva comodo inquadrare come nemici per poi essere liquidati.
La tensione era altissima, il 30 agosto 1918 la giovane rivoluzionaria Fanja Kaplan tentò di uccidere Lenin, il 3 settembre fu fucilata.
Dopo la Rivoluzione d’Ottobre si cadde nel pieno del Terrore Rosso, la Ceka procedeva a briglia sciolta. Furono istituiti quelli che passeranno alla storia come Gulag, ideati per i “nemici di classe”; in precedenza il 9 agosto Lenin aveva dato l’ordine di “rinchiudere i sospetti in un campo di concentramento fuori città” e di avviare la “deportazione in massa dei menscevichi e degli elementi infidi”.
A breve le isole Solovki, a pochi chilometri dall’Artico, diventarono il più infernale dei luoghi della Russia e del mondo per le migliaia e migliaia di detenuti lì ammassate in condizioni bestiali, dopo che erano state là condotte per mezzo di viaggi lunghi, estenuanti, in carrozze per il bestiame, in tutte le condizioni atmosferiche e senza alcun riguardo né per le condizioni igieniche ed alimentari, né in generale per i diritti essenziali della persona.
Si pensi che nel solo 1921, 100.000 circa contadini erano stati deportati con queste modalità ma tanti altri erano stati eliminati sul posto anche dai gas asfissianti usati dai bolscevichi.
I campi di concentramento esistevano già in epoca zarista, però innanzitutto ve ne erano di meno, non raccolsero quindi quelle grandissime quantità di uomini che nella Russia comunista furono ridotte in schiavitù per completare le grandi opere pubbliche e i piani quinquennali staliniani, inoltre sotto gli zar i tanti capi bolscevichi rinchiusi in quei campi trascorsero una prigionia agevolata, i vari Lenin e Stalin poterono ricevere visite, spostarsi presso campi vicini per andare a visitare gli altri deportati, ricevere denaro, posta e vivande e si presero perfino una piccola indennità di Stato.
Nell’URSS tutto ciò era semplicemente impensabile.
Dai giorni della rivoluzione sui giornali di regime si scriveva: “Senza pietà, senza risparmiare nessuno, uccideremo i nostri nemici a centinaia, anzi a migliaia, anzi li faremo affogare nel loro sangue”.
Solo a Pietrogrado, nel giro di pochi giorni e al culmine del conflitto civile, furono fatti fuori 500 prigionieri, mentre a Kronštadt i fedeli marinai alla rivoluzione ne liquidarono altri 400, ma fedeli lo furono fino al 1921, quando si accorsero di aver appoggiato dei criminali pericolosi, liberticidi e oltremodo feroci. Anche la loro ribellione si concluse con un bagno di sangue.
Arrivò la prima Grande Carestia (1921-1922) tra il Caucaso e l’Ucraina, dovuta alle stagioni particolarmente avverse e agli stravolgimenti economico-politici che sconvolsero l’assetto soprattutto agricolo del Paese.
Lenin, perfettamente a conoscenza della folle situazione, come sapeva d’altro canto altrettanto bene dei numerosi casi di cannibalismo avvenuti tra la gente portata alla disperazione, in modo spietato si compiacque di quest’altra immane tragedia in parte voluta.
La sua fu una soddisfazione esplicitata nella lettera inviata a Molotov il 19 marzo 1922, rimasta ovviamente segreta per moltissimi anni per non intaccare la mitizzazione del capo del bolscevismo, che per iscritto diceva di approfittare della situazione per attaccare un altro odiato nemico: “È precisamente ora, e solo ora, quando nelle regioni in preda alla carestia la gente mangia carne umana, e centinaia se non migliaia di corpi giacciono sulle strade, che possiamo (e quindi dobbiamo) portare avanti la confisca dei valori posseduti dalla Chiesa con la più selvaggia e spietata energia, non fermandoci davanti ad alcuna resistenza”; proseguiva dicendo: “Più grande sarà il numero di preti e borghesi reazionari che riusciremo a giustiziare per questo motivo, meglio sarà. Dobbiamo insegnare ora a questa gente una lezione tale, che non osino nemmeno pensare a qualunque resistenza per alcuni decenni”.
Per fame e per malattie morirono almeno due milioni di persone, se non di più secondo altre stime.
La tragedia fu appena mitigata dagli aiuti americani e dalla Croce Rossa Internazionale, comunque ad entrambi nel 1923 fu dato il benservito e furono cacciati in quanto “agenti dell’imperialismo americano”.
I piani economico-politici comunisti si rivelarono così fallimentari che il peso di quel disastro ricadde duramente sul popolo e Lenin fu costretto a fare marcia indietro, introducendo delle concessioni e delle libertà sia sul piano commerciale che delle proprietà, fu necessaria perciò una cosiddetta Nuova Politica Economica, anche se continuava a promettere tutto a tanti, libertà, uguaglianze, giustizia sociale, benessere ecc. ma in definitiva faceva il preciso opposto.
In ogni caso l’affermazione dello Stato totalitario era in piena corsa, il partito entrava nella vita della gente, controllava tutto e tutti in ogni momento e in ogni spazio, avviando un processo di rieducazione di massa. Le elezioni secondo il capo bolscevico erano una “formalità borghese”, superate dalla “democrazia proletaria” e chi si spostava anche leggermente dalle linee del partito poteva facilmente ricadere nella categoria letale del “nemico oggettivo”.
Del resto la terminologia ingannevole fu la prima delle armi per raggirare, derubare, perseguitare.
Sarebbe superfluo dire che le 3 guerre civili, quella contro i bianchi ossia contro gli anticomunisti generalmente filo-zaristi, quella contro i “verdi” ovvero contro i contadini, quella contro i “rossi” cioè i socialisti menscevichi e rivoluzionari, portarono a decine e decine di migliaia di morti.
Tuttavia il bolscevismo non rifiutava neppure le altre guerre. Quando la Polonia invase l’Ucraina, l’Armata Rossa non si mise solo sulla difensiva, prese la rincorsa e arrivò nei pressi di Varsavia, il sogno leninista era quello di diffondere la rivoluzione a livello mondiale in qualsiasi modo, anche quello di far scoppiare delle insurrezioni localizzate come era avvenuto in Ungheria o in Baviera, tentativi falliti dopo poco, oppure mediante una guerra a raggio più ampio come quella contro i polacchi.
Lo strumento insomma non contava nulla anche se contraddiceva i principi ideologici divulgati, l’importante era il risultato a qualunque costo. Solo che la controffensiva della Polonia non si fece attendere e fu micidiale, arrivò nel cuore della Bielorussia e costrinse i bolscevichi, già convinti di essere entrati vittoriosi in Europa per minare il continente, a firmare l’accordo di pace verso la fine del 1920. Solo che tutti quei Paesi che a quel tempo si erano dichiarati indipendenti furono gradualmente assoggettati. L’Estonia, la Lettonia, la Lituania, l’Armenia, la Georgia e l’Azerbaigian persero la loro libertà, i bolscevichi pure quella volta se ne erano fregati degli sventolati principi riguardanti l’autodeterminazione dei popoli e continueranno a farlo nei decenni successivi senza alcun ritegno.
Alla mistificazione propagandistica parteciparono naturalmente i comunisti di tanti Paesi, anche se bisogna considerare che tante informazioni non filtravano o filtravano solo in parte dallo stato-bunker dell’Unione Sovietica, così come poi dalle nazioni che aderirono al Patto di Varsavia del 1955. La Russia comunista ebbe sempre un gran punto di forza: quello di occultare, modificare, stravolgere fatti e idee a proprio vantaggio, lo fece in tanti modi e sempre in modo chirurgico, scientifico.
A questa campagna di falsificazione parteciparono appunto alcuni corrispondenti esteri; va ricordato il giornalista John Reed col suo libro “I dieci giorni che sconvolsero il mondo”, che uscì nel 1919 col benestare di Lenin , il quale per questa pubblicazione scrisse pure una prefazione, definendola una “narrazione fedelissima”. Nella realtà chi osava dire la verità lo faceva a rischio della propria pelle.
Fu un po’ il caso di Evgenij I. Zamjatin col suo romanzo distopico “Noi!” del 1921, soltanto che l’autore fu più fortunato di molti altri, riuscì a riparare all’estero mettendosi in salvo.
Di peggio fece William Duranty, il famoso corrispondente per il ‘New York Times’ dal 1922 al 1936, che mentì reiteratamente e sfacciatamente, negando perfino la gravissima carestia del 1931-32 e condizionando in questo modo l’opinione pubblica mondiale.
Qualcosa di simile accadde con il francese del partito radicale Edouard Herriot, che riuscì nel 1933 a vedere solo quello che gli fecero vedere senza avere il minimo quanto naturale sospetto della tragedia in corso, parlando di “prosperità”, di “abbondanza di cibo” nei ristoranti, di tanto lavoro; Herriot era alla ricerca di una alleanza coi russi, il resto doveva passare in secondo piano, anche le montagne di cadaveri di cui non volle occuparsi.
Seconda ed ultima parte: https://flaviocostantino.blogspot.com/2025/06/a-piede-libro-n115-lenin-e-stalin-lo.html?m=1
[sotto il quadro di Willi Sitte, "Omaggio a Lenin" (1969), Berlino]