La frase appartiene a Chvylovyi, un intellettuale filo-bolscevico, citato però dal suo conterraneo filo-fascista Onatskyi in questa pubblicazione italiana del 1939 intitolata “Studi di storia e di cultura ucraina”, che riproduce anche il testo stampato nel 1936 negli Annali dell’Istituto Superiore Orientale di Napoli. Il tutto potrebbe essere piuttosto sorprendente, ma di fatto non lo è perché di casi di questo tipo nell’Italia fascista ce ne furono parecchi.
Alle origini “L’emigrazione slava, che si spinse verso il territorio dell’Ucraina, con una intensità particolare fra il VI e l’VIII secolo, fece cadere il paese nelle mani del gruppo meridionale degli Slavi dell’Est. Di qui uscì il popolo propriamente detto dell’Ucraina. Questi elementi si stabilirono nelle regioni del Dniepr medio e inferiore, del Bug e del Dniestr meridionali; essi occuparono anche una parte assai considerevole del territorio del Don, donde vennero scacciati più tardi, nel corso del IX e del X secolo, dai Magiari e dai Pacinaki (o Pecenegi) che li obbligarono ad abbandonare le coste del Mar Nero”. Una volta terminata l’occupazione dei kazari e dei normanni, in modo maggiormente definito il “popolo ucraino [...] apparve sulla scena storica nel XI secolo, intorno alla città di Kyjiv (Kiev), sotto il nome di «Russ», e che sebbene fosse conosciuto nel corso dei secoli sotto vari nomi (russo, ruteno, cosacco, circasso, picco-russo, ucraino), rimase sempre lo stesso popolo”.
Questa comunità prese forma con quello che si può considerare il primo Stato d’Ucraina, avente il suo centro appunto in Kiev. Era il X secolo, il Granducato era quello di Sviatoslavo che aveva conquistato anche parte della Bulgaria; con Volodomiro invece i confini arrivarono alla Vistola e ai Carpazi. Sotto Jaroslavo, l’Ucraina, grazie ad una serie di unioni parentali tra sovrani, aprì le porte definitivamente all’Occidente, però la sua morte nel 1054 segnò una prima grande crisi; il regno si frazionò in diversi piccoli principati che comunque mantennero una certa aggregazione fraterna e la Chiesa iniziò ad intraprendere un suo percorso autonomo guardando a sua volta ad ovest.
Al contrario fu l’invasione dei Tartari nel XIII secolo a portare il Paese sull’orlo del collasso. La strenua difesa salvò il salvabile, Kiev era in decadenza da tempo ma il principato di Galizia e Volynia sbarrò il passo alle orde asiatiche. Sotto Jaroslavo Osmomyslo il nuovo regno si estese ad occidente fino al fiume Visloco, a sud fino al Danubio e al Mar Nero, a est fino a Kiev e quindi al Dniepr. Quello che si può considerare il secondo Stato ucraino si ritrovò ancora diviso coi successori di Osmomyslo, tuttavia il baluardo europeo resistette lo stesso, anche se i regnanti d’Europa non erano affatto accorsi a difendere quel confine che comunque svolgeva una funzione vitale per il continente, sia per la produzione del grano che per le materie prime presenti.
Sopra il Volga intanto un nuovo popolo andava affermandosi “sotto la guida dei principi del ramo cadetto della dinastia di Kyjiv (ramo dei Perejaslavl)”, i quali iniziavano ad imporsi sulla gente di Kiev. Era il XIII secolo e “mentre la Moscovia si cinge d’un muro di xenofobia e di odio superstizioso verso l’Europa «eretica», gli ucraini cercano di trasportare nel loro paese la cultura e la scienza occidentale”, soltanto che in parte i ruteni si stavano già spostando sotto la pressione delle invasioni mongole popolando le terre più ad ovest. Saltarono un po’ tutti i tentativi di creare uno sbarramento con gli altri Stati occidentali, anzi il patto d’unione tra Polonia e Lituania del 1336, che si consolidò in una unione nel 1385, certificò in concreto la nuova scomparsa di una indipendenza ucraina, anzi segnò l’inizio di una polonizzazione forzata che nei secoli a seguire si fece sempre più dura.
Nel frattempo le repubbliche marinare di Genova, Venezia, Pisa avevano sviluppato enormemente le loro attività tra la Crimea e il mare d’Azov, tutte zone dove di fatto avevano fondato delle vere e proprie colonie commerciali e abitative. L’espansione si arrestò e venne scomparendo dopo la presa di Costantinopoli dei Turchi nel 1453, l’area tornò instabile, tant’è che nel XV secolo ormai l’Ucraina era stata completamente spartita tra la Lituania, la Polonia, l’Ungheria e Mosca. Rimanevano i cosacchi che facevano Stato a parte e che girovagavano attorno al centro di Zaporohy; coraggiosi nomadi, guerriglieri, indomabili, fu grazie a loro e al loro Etmanno Bohdan Chmelnizkyj che nacque il terzo Stato d’Ucraina a spese dei polacchi sconfitti. Gli ucraini si ritrovarono di nuovo contro tutti, in conflitto coi polacchi, coi turchi, coi moscoviti, coi tartari ecc. Naturalmente la situazione era insostenibile nel lungo termine e i cosacchi dovettero scendere a compromessi con Mosca e lo fecero con il trattato del 1654, perdendo di nuovo la loro indipendenza, solo che le differenze culturali tra i due popoli erano molto grandi e perfino incolmabili.
Sempre nel XV secolo fu aperta la prima tipografia ma a Mosca, ancora nei tempi successivi, una attività di questo genere non solo riscontrava non pochi ostacoli da superare ma, a volte, veniva presa d’assalto in quanto considerata una “invenzione diabolica”.
L’Ucraina occidentale entrò a far parte dell’unione polacca-lituana nel 1658, una alleanza che serviva a puntare le armi verso Mosca e che di fatto portò ad un lungo conflitto ma senza risultati positivi. In una interminabile ricerca di patti realizzati e mancati con gli svedesi e con i turchi, l’Etmanno Doroscenko tentò di ottenere l’ambita libertà fallendo a sua volta anche a causa delle scorribande sul suo territorio delle truppe turche.
Nel XVI secolo l’Accademia di Kiev diventò uno dei centri culturali più importanti d’Europa, da lì transitarono tutti gli intellettuali ucraini migliori e non solo. Nel XVII secolo i moscoviti spadroneggiarono in parte dell’Europa dell’est inglobando i popoli di quei territori e appropriandosi del termine ‘russo’. A quell’epoca, poco prima che i nuovi russi limitassero la cultura e chiudessero i tanti istituti scolatici ed educativi, il greco Paolo D’Aleppo constatava con grande sorpresa che “In tutta la terra rutena o dei cosacchi abbiamo notato un fatto meraviglioso e bello: essi, quasi tutti, e perfino la maggioranza delle donne e delle ragazze, sanno leggere e sanno l’ordine della messa e i canti religiosi. I preti insegnano agli orfani, non permettono a loro di vagabondare senza studi per le strade”.
Il barocco non solo ebbe un gran successo in Ucraina ma si può dire che in quelle terre acquisì uno stile originale e autoctono, applicato pure alle costruzioni in legno - chiese comprese - anche se poi, pure qui, i russi di Mosca agli inizi del XIX secolo vietarono certe costruzioni e perfino le tipiche chiese a tre cupole ucraine, solo che d’altra parte questo inglobamento fece sì che la Russia si trovò, grazie agli artisti e agli intellettuali ucraini, sulla strada dell’occidentalizzazione, in particolar modo con lo Zar Pietro il Grande, nonostante le riluttanze e le limitazioni legislative che ogni tanto rispuntavano fuori. Ci sta inoltre da evidenziare pure che alcuni architetti italiani parteciparono alle edificazioni sull’intero territorio ucraino.
Ad inizio settecento l’Etmanno cosacco Ivan Mazeppa sottoscrisse un accordo con Carlo XII re di Svezia, tuttavia anche in questo occasione la coalizione con turchi e Svezia non portò a niente di buono, cosicché la sconfitta militare del 1708 costrinse Mazeppa all’esilio in Turchia. A quel punto, dall’apparente autonomia di Kiev, si passò in breve ad un controllo totale dei moscoviti sulla città ucraina. La morte di Pietro il Grande fece allentare la morsa che tornò a restringersi ancor di più con l’Imperatrice Caterina, la quale represse violentemente le ultime velleità ucraine annientando l’esercito dei cosacchi Zaporoghi, battuti nel 1775; coloro che riuscirono a mettersi in salvo lo fecero scappando di nuovo in Turchia. Nonostante questo e nonostante il divieto perfino di utilizzare la lingua ucraina sia per i documenti ufficiali, sia per le pubblicazioni, piccole ma numerose resistenze esistevano e si mantenevano ovunque anche nella Chiesa ucraina che da sempre non si era ma adattata del tutto al Patriarcato di Mosca.
L’oppressione però continuava. Lo Zar Alessandro non fu da meno e infatti, dopo alcune iniziali concessioni, utilizzò una serie di severe misure restrittive.
Per l’Ucraina occidentale e la Bucovina andò diversamente quando dalla Polonia caddero sotto l’autorità degli Asburgo, il rilancio culturale e nazionale ebbe uno slancio mai visto da tempo
Chi tentò una liberazione a largo raggio fu un ottimo conoscitore dell’Ucraina. Napoleone era convinto che quella terra avesse bisogno di essere finalmente affrancata sia dagli Zar, sia dagli onnipresenti inglesi che si intromettevano in un modo o nell’altro dappertutto. Bonaparte aveva addirittura in mente pure i confini di quel Paese, in effetti già negli anni precedenti alla sua salita al potere, in Francia erano stati stilati vari rapporti sulla situazione ucraina e in alcuni di essi si consigliava persino una emigrazione di funzionari e militari francesi soprattutto in Crimea, in modo tale da avere un più semplice accesso all’area e un maggiore controllo territoriale. In sostanza si riprendevano alcuni obiettivi verso est pensati da statisti del calibro di Richelieu e Mazzarino, tuttavia l’impegno francese si fece più concreto dopo la sconfitta subita da Mazeppa e Carlo XII. Si credeva che la “Russia può fare le guerre solamente sfruttando l’Ucraina, che le dà tutto il grano, e che ha la popolazione «intrepida, coraggiosa, destra, disinteressata e gelosa della sua indipendenza». Il «Comité de Salut Publique» stimò allora suo dovere interessarsi dell’Ucraina e preparare la liberazione di «questa nazione guerresca, prima libera, poi soggiogata da Pietro il Primo, e nella quale non c’è che da far rinascere il sentimento della libertà per far riscuotere il giogo»”. Si era pienamente coscienti di quanto fosse importante quel centro fondamentale sia in senso politico che economico. Nei disegni dell’Imperatore Napoleone, il nuovo Stato avrebbe dovuto avere più o meno gli stessi confini della Repubblica Sovietica Ucraina degli anni Trenta, così un gran numero di agitatori francesi fu riversato in quelle zone per entrare prontamente in azione e preparare il terreno ad una sollevazione di massa e ad un eventuale conflitto, tant’è che lo Zar dovette prendere le contromisure per contenere e reprimere quel consenso popolare che tra gli ucraini andava aumentando in fretta. Onatskyj puntualizzò: “da prima Napoleone pensò di seguire la via indicata da Carlo XII di Svezia, cioè andare attraverso l’Ucraina e liberarla dal giogo russo ma poi scelse la via più corta per infliggere un colpo mortale al cuore stesso della russia, Mosca. E ciò fu l’errore, che condusse alla sconfitta”. Nella sua mente rimaneva impressa la frase di Voltaire: “l’Ucraina sempre aspirava ad essere libera”. Forse proprio per evitare questo “errore”, Hitler ne commise un altro, quello di non attaccare frontalmente il Cremlino, preferendo la distruzione di Stalingrado, città dove invece le sorti della guerra si ribaltarono.
Insomma fu il popolo a fungere da prezioso scrigno per la conservazione delle storie e degli eroismi dei cosacchi, del patrimonio popolare, della etnografia, della lingua, dei costumi, fu il vero “custode dei tesori della cultura nazionale”, fu perfino protagonista di quella vivificazione letteraria che avvenne tra la fine del XVIII secolo e il XIX secolo, poiché era stato il depositario della purezza della lingua che si era protratta grazie a quella parlata che non aveva ceduto alle influenze russe. Ecco perché la classe intellettuale ucraina era molto legata alla cultura popolare, così come lo fu il noto poeta Scevcenko, colui che si può considerare il riferimento più importante dell’Ucraina; lui, come altri suoi connazionali, fu costretto all’esilio perché il diktat russo rimaneva ancora lo stesso ed era quello che aveva pronunciato il Ministro Valujev nel 1863: “La lingua ucraina non è mai esistita, non esiste e non deve esistere” e infatti se una delle tipiche metodologie storiche per far scomparire un popolo era quella di cancellare un idioma, i russi stavano facendo altrettanto ma a quanto pare senza successo.
Per altro gli ucraini lasciarono il segno anche oltre le loro terre. Quando nel 1858 la Russia conquistò alcune terre all’estremo oriente di fronte al Giappone, chiamate poi il Cuneo Verde (Zelenyj Klyn), venne facilitato il ripopolamento dalle autorità russe che sovvenzionarono i migranti affinché riprendessero la loro vita a migliaia e miglia di chilometri. Nel 1923 anche quel territorio cadde sotto il dominio bolscevico e un decennio dopo furono avviate delle politiche di ucrainizzazione, ma certe libertà furono presto limitate e poi del tutto soppresse anche con la violenza, nello stile più classico dello stalinismo. Il 56% della popolazione era rappresentata da ucraini ai quali fu privata una fetta di territorio di Biro-Budzansk in favore di una colonia per ebrei secondo un progetto che aveva previsto la costituzione di una repubblica sovietica ebraica ma che non ebbe in pratica nessuna applicazione; Onatskyj scrisse che in 10.000 ebrei erano arrivati in quei posti entro l’anno 1935 e che i nazionalisti ucraini, allo stesso modo, continuavano a desiderare la nascita di una repubblica ucraina indipendente che avrebbe dovuto unirsi col Manciu-kuo nipponico in chiave antibolscevica.
Agli inizi del XX secolo circa l’85% della popolazione faceva parte della classe contadina, vero e straordinario punto di forza nei secoli della cultura ucraina, la stessa che aveva preservato le proprie tradizioni nei secoli. Per loro era un gran motivo d’orgoglio; dai tempi più antichi erano sempre stati degli agricoltori che avevano vissuto nel decoro, con grande dignità, nel rispetto per il vicinato, per i raccolti, per l’ambiente, al contrario dei russi, abituati a vivere in spazi angusti, sporchi, senza regole per se stessi e per gli altri. Tuttavia nel tempo le terre erano cadute in mano ai moscoviti russi che avevano fatto propria anche l’intera burocrazia, grazie anche a quegli ucraini compiacenti messisi al loro servizio. Tra gli stranieri poi che si erano infilati nei gangli del commercio spiccavano soprattutto gli ebrei, i polacchi e i tedeschi. Nel 1917 quella sollevazione nazionale “tutta la terra a tutti i contadini” si accresceva attorno a questo motto, facendo entrare in competizione con i comunisti che di questo slogan ne avevano fatto una bandiera politica. Nel 1917 questa idea diventò legge che però, viste le circostanze, non fu neppure semplice applicare.
La Repubblica Popolare Ucraina nel 1918 finalmente “abbracciò quasi tutto il territorio etnico ucraino, dal fiume Don ai monti Carpazi, lasciando fuori soltanto il territorio dei cosacchi di Kuban, discendenti dei cosacchi Ucraini di Zaporoghi”. In queste poche parole si deduce perfettamente quali erano, e quali tuttora sarebbero le aspirazioni territoriali ucraine, tenendo presente che Kuban è la regione ad est del Mar Caspio e che in questo tracciamento di confini, chiaramente, la Crimea avrebbe dovuto far parte proprio dello stato d’Ucraina.
In ogni caso la Repubblica ebbe breve vita, schiacciata dai sovietici, in conflitto con le armate bianche russe, coi polacchi, il Paese, nel disinteresse generale del dopoguerra da parte degli stati occidentali, si trovò di nuovo diviso tra Polonia, Romania, Cecoslovacchia e Russia. Il sogno dei nazionalisti sfumò, sorse però la repubblica ucraina all’interno dell’URSS, anche se una sorta di ucrainizzazione durò poco, lo stalinismo fece terra bruciata lì, come altrove, provocando degli eccidi di massa, là peggio che altrove con milioni di morti dovute a carestie volute e involontarie ed esecuzioni di massa.
Nel 1919 la repubblica occidentale, con capitale Leopoli, si fuse con quella di Kiev ma i colpi di stato, i vari fronti militari tenuti contro i tanti nemici stavano facendo cadere il nuovo Stato.
In Italia, ma in Occidente più in generale, si constatava che “Pietro il Grande concepì e perseguì l’idea di far entrare la Russia nella civiltà europea. Il suo disegno è ora caduto; la Russia diventa di nuovo Asia” diceva il professor Bonfante; “Se la Russia zarista aveva caratteri che la differenziavano dall’Europa, la Russia bolscevica non ha più nulla a che vedere con le civiltà occidentali. L’unità di civiltà dell’Europa trae origine da Roma”, la Russia, invece, diceva il professor Sessa, “Ha visto le orde tartare di Cinghis Chan e di Tamerlan, ne ha subito il giogo per circa quattro secoli e dai Tartari ha avuto le basi della sua organizzazione statale. Non ha neppure conosciuto la Roma cristiana, ché il cristianesimo le apparve attraverso l’Oriente, attraverso la Bisanzio di Costantino” dunque se la Russia di prima era lontana dall’Europa “oggi la Russia bolscevica, col suo regime sovietico, ha una funzione nettamente antieuropea” (entrambe le affermazioni furono rese pubbliche al convegno ‘Volta’ che si era tenuto a Roma nel 1932).
L’autorevole filosofo Oswald Spengler, uno dei pensatori più apprezzati da Mussolini, nel suo ‘Anni decisivi’, ugualmente diceva: “La vittoria del bolscevismo ha un significato storico completamente diverso da quello social-politico o economico teorico. L’Asia conquista la Russia dopo che l’Europa se l’era annessa per mezzo di Pietro il Grande”, “il vero russo è rimasto nomade nei suoi sentimenti, come il cinese del nord, il mancese ed il turkmeno. La patria è per lui non il villaggio ma la pianura sconfinata” e ancora scriveva che il contadino ucraino era abituato nei secoli ad “amare la sua terra”, a “difenderla con la spada” contro i “nomadi rapaci”, a vivere sulla propria terra, nel “ricordo del sangue versato dagli avi”, sviluppando “un fortissimo senso per la proprietà privata” dovuto all’attecchimento del diritto romano nel passato; “Questa differenza psicologico-sociale fu una delle cause, per cui il comunismo si attaccò e si propagò con tanta facilità nella Russia moscovita, mentre nell’Ucraina esso incontrò la più accanita resistenza. Opponendosi con le armi al comunismo moscovita il popolo ucraino difendeva non solamente la sua indipendenza nazionale, ma anche la sua mentalità occidentale, la sua civiltà europea. Abbandonato dall’Europa, come nei tempi dell’invasione tartara, esso fu di nuovo sacrificato, perché l’Europa, stanca della guerra europea, dilaniata dalle varie sue crisi economiche e spirituali, non voleva vedere, né comprendere”.
Questo era quel che accadeva in quegli anni e anche da qui nascevano le premesse per quel micidiale conflitto - inevitabile direi - che sarebbe scoppiato qualche anno dopo nell’Europa dell’est.