(Intima ed irregolare rubrica Libraria) - Anno III
Prima di iniziare vanno fatte subito due considerazioni.
La prima: è incredibile quanto può esser stata intensa la vita di un poco più che ventenne e ciò non può non far scatenare una serie di piccole riflessioni personali sulla piccolezza della nostra quotidiana esistenza.
Seconda: sale lo sdegno se si ripensa alla rimozione storica subita da questo giovane, una eliminazione che ci riguarda tutti, poiché tutti, nessuno escluso, sono stati privati della conoscenza dei suoi pensieri, delle sue azioni, del suo coraggio e di quelli di tanti suoi coetanei.
D'altra parte il Sistema vigente ha bisogno di sudditi mansueti ed educa e rieduca le gran masse di individui, rendendole il più docili e apatiche possibile, stordendole a catena con tutto quel che può essere superfluo se non nocivo.
UNA VITA OLTRE LA VITA
Goffredo Mameli nacque il 5 settembre 1827 a Genova. Il padre era un ufficiale della marina, la madre aveva nobili origini, entrambi lo fecero crescere con le idee liberali e nazionali. Lui, sin da bambino, iniziò a scrivere poesie; una volta cresciuto tentò di seguire le orme del padre, cercando di arruolarsi proprio in marina, ma la richiesta fu rigettata per ragioni non note. Il primo inno, “L'Alba”, lo scrisse nel 1846, da lì in poi ne compose numerosi e tanti contenevano accorati toni patriottici.
Pur attratto dalle donne temeva che questa fascinazione gli avrebbe fatto perdere di vista i suoi obiettivi, così come lo preoccupavano alcune eventuali e fuorvianti emotività: “Temo la caduta nel sentimentale e nel platonico, miei eternamente acerrimi nemici” diceva.
All'interno della Società culturale Entelema, dove conobbe il futuro aiutante di Garibaldi Nino Bixio, promosse giorno per giorno i suoi ideali; diventò un agitatore infaticabile pronto a spostarsi di città in città per fomentare le proteste.
Per proseguire le sue attività eversive evitò la leva, all'epoca, infatti, le famiglie di alto rango potevano permettersi di sottrarre i propri figli alla chiamata per il servizio militare, pagando però una speciale ammenda.
A quel punto la strada era libera, si presentò anche a Milano per l'insurrezione del 1848, comandando il battaglione “Mazzini” di circa 300 ragazzi e dove la sua “Fratelli d'Italia” riecheggiò tra le barricate; del resto era stata proprio la mamma Adelaide Zoagli a raccomandarlo presso l'amico d'infanzia Mazzini con una lettera in cui diceva che “Io non pretendo sottrarlo a un solo pericolo utile al paese”.
Davanti agli insuccessi politico – militari però Mameli constatava amaramente: “Dio protegga l'Italia dalla stoltezza (o peggio) di chi dirige le cose”. E poi la fondazione del giornale “Diario del Popolo”, l'incontro con Garibaldi, il passaggio in vari centri del nord del Paese per promuovere le sue azioni anticlericali e anti-austriache ma non proprio filo-sabaude, l'invenzione de “L'Inno Militare”, l'arrivo a Roma per la costituenda Repubblica romana dopo il voltafaccia anti-italiano di Pio IX che poi si mise in fuga verso Gaeta sotto l'egida dei Borboni, e ancora le vittorie armate riportate a Velletri, Palestrina e Anagni, Mameli era un treno in piena corsa, doveva e voleva a tutti costi combattere contro tutte le minacce degli alti prelati, dei francesi, dei Borboni ecc.
Bixio si rese conto di persona del suo sfinimento: “Era appena capace di tenersi in piedi, ma voleva trovarsi al posto che in quello stato non doveva esser suo. A me che lo supplicavo piangente di rimanersi almeno a letto per quella mattina, il 3, rispondeva: mi parli sempre di me; quando assassinano il nostro paese noi non abbiamo altro letto che quello della morte; ma prima bisogna battersi, battersi, battersi”.
La sua dipartita tuttavia avvenne a causa di un incidente mai chiarito, dovuto forse ad una pallottola sparata da un suo commilitone o per colpa sempre di una baionetta di un soldato della sua parte.
Febbricitante ed agonizzante il suo corpo iniziò a mollare la presa; mentre la Repubblica romana cadeva subì l'amputazione di una gamba incancrenita, Goffredo realizzava così con gran tristezza tutta la sua impotenza: “Sono ormai anch'io un minorato e capisco le impazienze delle minoranze. Morire in campo sì, ma qui come un paralitico...”.
Gli ultimi deliri se lo portarono via il 6 luglio 1849 e la salma non fu rilasciata al padre che invece dai francesi ricevette soltanto la sciabola del figlio. I resti, affinché non andassero perduti, furono gelosamente conservati dal dottore curante del giovane, Agostino Bertani. L'esumazione e le relative onorificenze funebri avvennero soltanto il 9 giugno 1872 e coloro che seguirono le esequie per la sepoltura al Verano intonarono il suo “Fratelli d'Italia”.
Nel 1940 le spoglie vennero portate al Vittoriano, nel 1941 infine al Gianicolo dove, nella foga della lotta, il giovane era stato ferito mortalmente. I suoi resti furono deposti in un mausoleo, assieme a quelli dei tanti altri patrioti che avevano segnato la storia del Risorgimento italiano.
Dopo la tragedia Mazzini testimoniò che, nonostante la tremenda tragedia, la signora Zoagli “darebbe senza esitare tutti figli che avrebbe potuto avere per la causa dell'Italia”.
Sempre il Padre della Patria Mazzini, di Goffredo, disse che era un “poeta – combattente del Risorgimento”, “bello e noncurante della persona, d'indole amorosamente arrendevole e beata di potere abbandonarsi a fiducia, pur fermissimo in tutto ciò che toccasse la fede abbracciata”.
UN INNO OLTRE LA VITA
Nel novembre 1847, Mameli inviò il suo testo al novello maestro - patriota Michele Novaro (1822-1885). Era un'epoca in cui di inni se ne scrivevano tanti, molti son rimasti anonimi, tutti entravano in competizione tra di loro; nessuno fu adottato in modo ufficiale, tant'è che la sola popolarità tra la gente contrassegnava il loro successo.
Uno dei più noti fu “L'inno di Garibaldi” di Luigi Mercantini che recitava: “Va' fuori d'Italia. Va' fuori ch'è l'ora./Va' fuori d'Italia. Va' fuori o stranier!”, un pezzo scritto appositamente per la spedizione dei Mille e celebrato da Garibaldi il 5 maggio 1860, durante la festa tenuta prima della partenza da Quarto e per quei festeggiamenti questo brano venne alternato proprio a quello di Mameli.
Inoltre, negli anni, in favore dell''“Eroe dei due mondi” furono scritti diversi brani sulla sua invincibilità e la sua addirittura immortalità.
Detto questo è utile rimarcare che lui e il suo seguito erano una manica di rivoluzionari, che si scagliavano contro la Chiesa, contro i francesi, a volte contro i Savoia, contro i Borboni, erano degli scapestrati romantici con armi alla mano, il braccio lesto e il pensiero fulminante, ecco perché tra le altre canzoni ebbe pure successo il “E a Roma a Roma”, in cui non si nascondeva l'avversità all'anti-italiano Papato: “E a Roma a Roma/ci sta un papa/che di soprannome/si chiama Pio nono;/lo butteremo giù dal trono,/dei papi a Roma/non ne vogliamo più”.
“Il canto degli italiani” di Mameli, così dapprincipio si chiamava, esordì il 10 dicembre 1847 a Genova, di fronte a 30.000 astanti che credevano nell'Italia unita, una Italia che invece era ancora frazionata in Stati e staterelli in conflitto tra di loro.
La data era emblematica, cadeva per il centenario della cacciata degli austriaci da Genova. “Il canto”, similmente agli altri italiani e quelli di altri Paesi, enunciava la volontà di liberazione dalle catene dell'occupante, il fine era naturalmente l'unione del popolo. Non fu ben accetto da Casa Savoia, vuoi pure per motivi di opportunità politica; difatti fu censurato il passo marcatamente anti-austriaco: “Son giunchi che piegano/le spade vendute:/già l'aquila d'Austria/le penne ha perdute”.
Ma Mameli stava diventando talmente popolare che altre sue parole furono niente poco di meno che musicate da Giuseppe Verdi, in quello che è passato alla storia come il “Canto di guerra” o “Inno militare”, solo che a volte a determinare il reale successo anche di una canzone è il momento politico e, in quei frangenti, le tremende sconfitte di Novara e Custoza avevano temporaneamente affossato sia i sogni politici che i relativi canti in cui questi sogni erano stati fissati.
Verdi ci riprovò con “L'Inno delle nazioni” nel 1862, un pezzo che si ispirava chiaramente alla “Marsigliese”, a “Fratelli d'Italia” ma pure al “God Save The King” e che fu ideato per l'Esposizione Universale del 1862 che si tenne a Londra.
Il brano del rampante Mameli ottenne di nuovo il suo riconoscimento per la presa di Roma nel 1870 e in quell'occasione venne affiancato da una serie di canzoni anticlericali e da “La marcia Reale d'Ordinanza” scritta da Giuseppe Gabetti nel 1831 per il Regno di Sardegna, pezzo che comunque rimaneva l'inno ufficiale della nuova nazione italiana. Quindi, oltre che nella politica di tutti i giorni, gli attriti tra repubblicani e monarchici si trasferirono anche nella musica.
Non si può non ricordare poi il famoso “Inno di Oberdan” del 1882, pensato da un anonimo in onore di Guglielmo Oberdan, il quale era fuggito a Roma per non prestare servizio militare sotto gli austriaci e che fu in seguito condannato all'impiccagione perché aveva progettato l'assassinio dell'Imperatore asburgico.
Prima di essere ammazzato gridò: “Viva l'Italia, viva Trieste libera, fuori lo straniero!”, mentre il brano poi a lui dedicato inizia in questo modo: “Impugna le bombe d'Orsini,/prepara il pugnale alla mano;/a morte l'austriaco sovrano!/Noi vogliamo la libertà”.
“Il canto degli italiani” resse la competizione con i moltissimi pezzi di protesta sociale di fine secolo XIX, tra i quali non si può non ricordare il celeberrimo “L'Internazionale” dei francesi Eugene Edme Pottier e Pierre Degeyter, e arrivò intatto e pieno di vitalità alla Grande Guerra, quando risuonò un po' dappertutto al fronte e nelle retrovie d'Italia; Arturo Toscanini a Milano, il 25 luglio 1915, ne fece una esecuzione, chiaramente con un fine interventista, che passò agli annali di storia.
Come sappiamo moltissime altre canzoni, alcune tuttora famose, fiorirono in quei terribili anni di durissimo conflitto.
Invece “Fratelli d'Italia” ebbe meno eco nel Ventennio, in quegli anni spadroneggiarono le canzoni del fascismo; il foglio di disposizioni del 28 aprile 1932 del segretario del partito, Achille Starace, sembrava poi apporvi sopra una pietra tombale: “Vieto in modo assoluto che si cantino canzoni o ritornelli che non siano quelli della Rivoluzione o che contengano riferimenti a chiunque non sia il DUCE” ma, come sempre, in Italia la scappatoia la si trova sempre, difatti “Fratelli d'Italia” continuò lo stesso ad essere suonata e mandata in radio, ebbe soltanto meno spazio, d'altra parte però continuò ad essere adottata dal fuoriuscitismo antifascista.
Altro discorso è quello attinente alla Seconda Guerra Mondiale; i canti risorgimentali stridevano con la nuova alleanza coi tedeschi e quindi scomparvero del tutto e alcuni ripresero vita nel 1943, dopo la caduta del Regime, naturalmente sempre nel campo antifascista.
Il 14 ottobre 1946, il Consiglio dei Ministri “Fratelli d'Italia” lo fece diventare l'ufficiale inno nazionale, ma quella parve più una decisione di ripiego, sbrigativa, presa in assenza di altro, non sembrò esserci né un grande interesse né una decisione comune su questo fronte, alcuni avrebbero optato per il “Va' pensiero” di Verdi, altri avrebbero preferito cambiare le parole del testo, ritenute oramai superate, inopportune e perfino troppo crudeli.
Le stesse polemiche e contrapposizioni si son viste fino a pochissimi anni fa, tutte pretestuose, tutte fuori luogo, tutte inutili, talvolta alcune pure offensive.
Già nel 1960 la RAI aveva indetto una specie di gara musicale-televisiva, una sorta di referendum ufficioso per sistemare la annosa questione, ma il pubblico dette un riscontro mediocre al concorso e non se ne fece più nulla.
Dopodiché non si può non segnalare che nel 1970 la “Ode alla Gioia” di Beethoven divenne la colonna sonora portante del Consiglio d'Europa.
Mameli, nonostante tutto, resistette ancora una volta, anzi Carlo Azeglio Ciampi, Capo dello Stato dal 1999 al 2006 (nel 1999 ci fu il 150esimo anno della morte del giovane eroe), cercò di ridar vita all'inno con una serie di appuntamenti istituzionali. In effetti riuscì nei suoi intenti, anche se va ammesso purtroppo che questa rinascita è stata più di facciata e da parata che altro.
I tempi son cambiati, le teste anche e perfino troppo verrebbe da dire, ma questo è, ahimè!
Lo stesso non si può non fare un encomio alla Regione Lazio che nel 2003 fece uscire questo sorprendente libro, anche se così sbalorditivo non avrebbe dovuto esserlo affatto.
FRATELLI D'ITALIA (il testo integrale)
Fratelli d’Italia
L’Italia s’è desta,
Dell’elmo di Scipio
S’è cinta la testa.
Dov’è la Vittoria?
Le porga la chioma,
Ché schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.
Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica
Bandiera, una speme:
Di fonderci insieme
Già l’ora suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.
Uniamoci, amiamoci,
l’Unione, e l’amore
Rivelano ai Popoli
Le vie del Signore;
Giuriamo far libero
Il suolo natìo:
Uniti per Dio
Chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.
Dall’Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano,
Ogn’uom di Ferruccio
Ha il core, ha la mano,
I bimbi d’Italia
Si chiaman Balilla,
Il suon d’ogni squilla
I Vespri suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.
Son giunchi che piegano
Le spade vendute:
Già l’Aquila d’Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d’Italia,
Il sangue Polacco,
Bevé, col cosacco,
Ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.