Intima ed irregolare rubrica Libraria - Anno IV
Il filologo ed editore Claudio “Mutti, 1997, è tornato ancora sull’argomento a proposito del dramma Iphigenia, scritto da Eliade nel 1939 e rappresentato a Bucarest nel 1941 (Iphigenia venne pubblicata nel 1951 per i tipi dell’Editura Cartea Pribegiei, Valle Hermoso, Argentina, e fu rappresentata di nuovo a Bucarest nel 1982, in occasione del settantacinquesimo compleanno di Eliade): Petru Comarnescu scrisse nel proprio Diario che Eliade aveva l’intenzione, mettendo sulla scena il sacrificio della figlia di Agamennone, morta per dare la vittoria ai Greci, di ricordare Corneliu Codreanu, e – osserva Mutti – tutto il lavoro teatrale, ricco di richiami alla Leggenda di Mastro Manole e a Miorita, è improntato alla spiritualità legionaria. Mutti cita la prefazione scritta da Eliade per l’edizione argentina di Iphigenia, uscita nel 1951 e nella quale l’Autore accosta la morte di Ifigenia a quella della sposa di Mastro Manole, e, aggiungiamo, anche nei Commenti alla leggenda di Mastro Manole lo studioso romeno riconduce il sacrificio della figlia di Agamennone all’“antichissima ‘teoria’ della creazione attraverso la morte rituale” (…). In questo caso, non mi sentirei di escludere del tutto che davvero l’Ifigenia eliadiana potesse adombrare la figura di Codreanu, ucciso nella notte tra il 29 e il 30 novembre 1938 (ricordo del resto che Ioan Culianu, alla fine degli anni ’70, informandomi dell’esistenza di una tragedia di Eliade dal titolo Iphigenia, me ne fornì la medesima interpretazione)”.
(da Paola Pisi, I ‘tradizionalisti’ e la formazione del pensiero di Eliade, in: AA. VV., Confronto con Mircea Eliade. Archetipi mitici e identità storica, a cura di Luciano Arcella, Paola Pisi, Roberto Scagno, Jaca Book, Milano 1998, p. 114. Lo stesso estratto è presente anche sul sito della casa editrice ‘Edizioni all’Insegna del Veltro’, per la quale è stato pubblicato questo testo nel 2010).
Per l’appunto quest’opera fu messa in scena anche nel 1982, in piena dittatura di Ceausescu, sì perché, per quanto potrebbe apparire strano, Eliade nella sua Patria, durante il lungo periodo del socialismo reale, fu riconosciuto come intellettuale nazionale, nonostante i suoi trascorsi nella Guardia di Ferro e nonostante la sua antitesi al comunismo in generale.
Eliade scrisse molto nella sua vita e sulla qualità delle sue opere, soprattutto saggistiche, solo qualche povero sprovveduto avrebbe da eccepire, lo stesso vale per questo dramma teatrale dalle tinte classiche, che appunto individuava l’estremo sacrificio come un atto di purificazione, di ‘devotio’ - quel che in Roma antica era il voto del Generale che si toglieva la vita per auspicare l’inversione dell’andamento della guerra a favore delle proprie truppe - di superamento della scomparsa della memoria e del cedimento dell’esistenza con una azione simbolica, storica, leggendaria.
Torna perciò il discorso sopra riportato: “Codreanu credeva alla necessità del sacrificio, pensava che ogni nuova persecuzione avrebbe solo potuto purificare e rafforzare il Movimento […] Senza dubbio Codreanu è morto, come tanti altri legionari, convinto che il suo sacrificio avrebbe affrettato la vittoria del Movimento […] Puiu Gârcineanu mi ripeteva […] che lo scopo supremo del Movimento non era neanche più la redenzione individuale mediante un eventuale martirio, ma ‘la resurrezione della nazione’ grazie ‘ad una saturazione di torture e di sacrifici cruenti’.
La sola smentita massiccia che sia stata data al famoso luogo comune circa la non religiosità del popolo romeno (l’unico popolo cristiano che non ha dei santi, ci veniva continuamente ricordato) è provenuta dal comportamento di alcune migliaia di Romeni nel 1939-1939, nelle prigioni e nei campi di concentramento, perseguitati o liberi che fossero”, scriveva Eliade nei suoi diari.
Nella fattispecie lo studioso romeno di religioni inquadrava in questo modo una serie di significati: “i miti sono atemporali […] sono veri in ogni contesto storico e in qualsiasi livello culturale” e “un mito può essere rivalutato ad ogni livello spirituale senza che debba mai diventare ‘anacronistico’, proprio perché esso non ha nulla a che fare con Chronos, col ‘Tempo’. Il mito appartiene ad Aiòn, cioè al Grande Tempo, al Tempo archetipico, all’Eternità. (A tale proposito il lettore può trovare molti riferimenti leggendo il ‘Timeo’ di Platone)”.
Siamo dunque nel cuore di quelli che si chiamano archetipi, che si fondano su quella “concezione che nulla può durare se ad esso non si assegna (attraverso il sacrificio!) un’anima […] questa concezione è arcaica ed è attestata presso innumerevoli culture esotiche e precristiane”, così alla “vittima viene costruito un altro corpo, glorioso e durevole. Il ‘nuovo corpo’ di Mastro Manole è la chiesa. Alla luce di questa concezione, Ifigenia sopravvive, attraverso il sacrificio, in quel ‘corpo mistico’ che era il sogno di Agamennone: la guerra contro l’Asia, la conquista di Troia”.
Tuttavia, secondo il suo autore, i tre atti di questa opera giovanile, che si rifaceva con tutta evidenza alla “Ifigenia in Aulide” di Euripide (406 a. C.), non avevano l’obiettivo di rispettare i canoni tipici del classicismo, né, come visto, tanto meno quelli di cristianizzare il mito attraverso la citata leggenda romena di Manole.
I Greci miravano all’opulenza dell’Asia: “Ne abbiamo abbastanza della povertà. Abbiamo voglia di terre ricche, aneliamo all’abbondanza degli Asiatici!”, “Ma voi le avete mai viste le donne dell’Asia? Non hanno pari al mondo!”, “E che vini hanno!”, “rimarrei là, in Asia. Ho sentito dire che laggiù la gente è tanto ricca, che si fabbricano copricapi d’oro e sandali d’argento”, solo che l’andamento della guerra non era favorevole, si diffuse la convinzione che per placare la dea Artemide ci fosse bisogno di una immolazione e il vaticinio aveva chiesto la vita della figlia di Agamennone: “Gli dei sono i padroni! Nemmeno i re possono calpestare i comandi degli dei!”.
Nella psicosi dilagante, l’unica mente razionale rimaneva quella di Achille: “Da quando in qua gli dei hanno scelto guaritori e indovini per interpretare i loro pensieri? Gli dei parlano all’intelletto, non al terrore ottenebrato, caro soltanto alle femmine e ai barbari”.
Ma il Fato aveva circuito le menti di tutti, lo stesso “scaltro” Ulisse appariva tra i più infatuati e cinici. Il crescendo della tragedia diventava sempre più incalzante e straziante.
Criside: “Solo tu sogni continuamente angeli e semidei, esseri che puoi soltanto divinare con la mente e non incontri mai nella realtà”; Ifigenia: “La mente è il più grande dono degli dei”; Criside: “E tuttavia essa t’inganna più crudelmente dei mortali”.
Lo sposalizio di Ifigenia con Achille avrebbe ridotto l’esistenza di quest’ultimo a una vita senza eroismi, senza “gloria”, mortale; Achille sarebbe caduto per sempre nel dimenticatoio dei tempi.
Un peso morale in più per una Ifigenia che, alla stessa stregua di tutti gli esseri umani, temeva la Morte, soprattutto la dipartita “priva di fortuna e di significato”, mentre “Certamente è una cosa degna di lode essere sacrificata per la salvezza di molti”:
“Non muoio io per tutti voi, per la realizzazione dei vostri sogni e delle vostre vite, per la Grecia intera? Quale donna può vantarsi di aver tanti figli? E tutti voi combatterete e vincerete grazie a me, grazie al mio sangue! Guarda come sono numerosi, Achille! Anche loro attendono tutti Troia, proprio come l’attende e la sogna il Re. Io vivrò, per sempre: in loro, attraverso loro, nei loro discendenti, nei loro sogni”.
“Guardami bene negli occhi, padre mio, non temere! Non lasciarti oscurare dalla tristezza. Ricordati, è una sera di nozze. Adesso, da un momento all’altro, sarò sposa”.
Era l’abbraccio fatale con la Morte, l’inizio di una vita eterna.