venerdì 4 luglio 2025

A PIEDE LIBRO n. 35 - Yu-Ri-Sàn, la pittrice di crisantemi - Mario Appelius

A PIEDE LIBRO n. 35
(Intima ed irregolare rubrica Libraria) - Anno II

YU-RI-SÀN, LA PITTRICE DI CRISANTEMI 

“Il «Grande Yamato» è una terra divina.
Solamente il Giappone è opera dell'Antenato Divino.
Trasmesso dalla Dea del Sole- Amaterasu – al lungo lignaggio 
dei suoi discendenti imperiali, si chiama la «Divina Contrada»”.

Iingwoscigotoki (sec. XVI)

Erano i tempi in cui in Italia vigevano le leggi razziali eppure la censura non pensò affatto di fermare questo romanzo che vedeva come protagonista un meticcio. 

In realtà buona parte del testo era già stata scritta nel 1935 a Kyoto ma poi Appelius fu spedito d'urgenza a seguire il conflitto in Etiopia - in proposito si parlerà in uno dei prossimi numeri di “A Piede Libro” proprio della pubblicazione che scaturì da quell'incarico -  dopodiché fu “ripreso e terminato a tre anni circa di distanza, in Cina; accanto alle intrepide fanterie giapponesi”. La prima edizione perciò di “Yu – Ri – Sàn” venne data alle stampe solo nel novembre 1938.      

Roberto è figlio del Conte Namura e della nobildonna francese de Tierry, è nato da un matrimonio che aveva fatto vociare i giornali ma che era stato il frutto di un amore “al di sopra di tutte le diversità di religione, di razza e di continente”, benché disapprovato soprattutto dalla famiglia di lui. 

Il richiamo del sangue è però più forte ed indissolubile. Il Conte torna nella sua casa natale e riscopre tutti i costumi e le radici del suo popolo anche se morirà nel terremoto di Kagoscima. 

Roberto cresce in Francia, riceve una educazione francese, non ha alcun interesse per l'Oriente anzi lo osserva con snobismo sicuro della sua identità, il suo volto è occidentale anche se lo tradisce un qualche tratto esotico, fa una rapida e impeccabile carriera militare, poi il suo destino sembra richiamarlo alla sua fonte ancestrale. 

In Indocina scoppiano delle sommosse, il suo reggimento viene inviato nel Tonchino, sarà il primo passo all'indietro, nel passato, alle origini dei tempi. 

Già Pechino si dimostra esser una inattesa rivelazione ma la sua nippofobia è ancora molto forte e continua ad esserla anche quando viene trasferito all'ambasciata di Tokyo. 

I colori, le consuetudini, i panorami, lo stile di vita, lo penetrano lentamente, goccia dopo goccia, la sua mente e il suo corpo rimangono intrisi da un mondo completamente estraneo al nostro, così diverso, così opposto. Le reminiscenze della stirpe prendono il sopravvento, Roberto sorprendentemente impara la lingua in soli tre mesi ed è specialmente il maestro Kiyòsci ad introdurlo nella società giapponese, grazie a lui conoscerà la meravigliosa Yu – rí, la creatura che cancellerà il suo stile di vita occidentale, d'altra parte la “vita giapponese è tutta piena di cerimonie, di commemorazioni, di riti, di simboli, destinati a profumare l'esistenza, a rimescolare i ricordi, a dare una patina mistica alle vicende più semplici e banali del «tran – tran» quotidiano”. 

Poi l'unione matrimoniale tra i due, eseguita quasi in segreto secondo un antico ed intimo cerimoniale e Yu – rí, da femminista ed attivista, si trasforma nella più servizievole ed amorevole delle donne, “L'uomo deve trovare la medesima donna quando si addormenta e quando si sveglia” secondo le parole di Confucio, mentre Roberto si ferma a riflettere “sull'inutile complessità di gran parte della vita occidentale e sull'immenso sforzo non necessario che richiedeva”, così il giovane capitano si trova del tutto “risucchiato nell'ieri della sua razza”.

Il clima nel Paese del Sol Levante è diventato ormai politicamente arroventato, si parla di “guerra al mondo”, contro quel mondo occidentale demo – plutocratico che lo ha umiliato, che lo ha limitato, che addirittura lo aveva insultato in talune occasioni con misure e offese razziste come nel caso statunitense. È la reazione e la costruzione del Daj Nippon, del Grande Giappone, “sprigionando ondate galvaniche di energia razziale”.

Roberto però è sempre più rapito, ammaliato da questo clima fantastico, la sua missione militare di portare informazioni sui piani giapponesi in Indocina agli alti Comandi francesi fallisce nei meandri di quelle atmosfere sognanti che lo circondano, anzi viene anche scoperto ritrovandosi a fare una scelta dolorosa, quella di tradire la Francia passando documenti falsi costruiti ad arte dagli ufficiali dell'Impero nipponico o rifiutarsi e quindi tradire parte delle sue origini. 

Il finale sarà tragico nel più doloroso binomio dell'amore e della morte. 

La madre cercherà di riportare il figlio in Francia ma morirà di crepacuore, il Capitano Namura affranto dal dolore,  guidando all'impazzata in fuga dalla disperazione, si schianterà con l'auto dopo aver gridato “imbecille” al grande Budda di Kamakura. 

Una volta all'amata Yu – rí aveva confessato il suo ultimo desiderio: “Se morissi a Tokio vorrei essere sepolto a Aoyàma - Bógi e mi parrebbe di rinascere ogni primavera quando fioriscono i ciliegi!”. Le spoglie dei due verranno adagiate le une a fianco alle altre e poi:
“Ricorreva quella notte il quarto anniversario della morte di Roberto, il quarto 'meinichí'.

Yu-rí sapeva che in occasione dei 'meinichí' gli «spiriti dei morti» hanno l'abitudine di abbandonare i «grandi campi oscuri» - il 'Meidò' – e di venire in terra, intorno alle loro tombe e controllarvi se il loro ricordo sia ancora vivo nel cuore dei familiari e dei discendenti. Gli «spiriti» traggono da questa constatazione un godimento di essenza arcana e se ne tornano più leggeri ai «grandi campi oscuri» donde pian piano trapasseranno con lo scorrere del tempo nell'«immenso silenzio» che è la fine ed è anche il principio della vita umana. Lì, vanno i morti. Di lì, vengono i nuovi Vivi. Per la eternità delle eternità...”, “Yu - rí era sicura che una piccola parte dello spirito di Roberto restava accanto a lei, intorno a lei, nell'atmosfera che respirava”.

Fino a ¾ del testo la tensione letteraria è tutto sommato buona, anche se discendente, poi compaiono dei vuoti e delle semplificazioni che vanno troncando la trama, sembra quasi che Appelius si fosse stancato di proseguire il romanzo basato su una “storia vera” a suo dire, preferendo sbrigarsela per toglierselo di torno dopo che era passato troppo tempo. 

Ma Appelius non era un romanziere, i suoi capolavori corrispondono invece a quei numerosi e straordinari resoconti, al massimo talvolta romanzati, trascritti durante i suoi viaggi in giro per il mondo in tutte le condizioni umane possibili ed immaginabili. 

Questa storia, in definitiva, servì all'autore più che altro per iniziare a parlare del suo amato Giappone, la più affascinante delle terre a suo avviso, solo meno affascinante della amatissima Italia. 

“Il Giappone pochissimo noto agli Italiani e agli Occidentali in genere. Grande e bel Paese, abitato da un popolo guerriero e artista, merita di esser meglio conosciuto. Questo romanzo vuole essere un piccolo contributo a tale maggiore conoscenza, la quale ha oggi per gli Italiani la sua ragion d'essere anche nella solida amicizia esistente tra l'Italia fascista di Mussolini e il «Daj Nippon» del «Buscidò».
Il libro ha, quindi, un suo contenuto politico  pur essendo stato concepito come opera di letteratura con un fine puramente artistico”. 

Il paese del Sol Levante invece lo descrisse magistralmente nel suo successivo “Cannoni e ciliegi in fiore” del 1941, del quale si è parlato nel numero precedente di questa stessa rubrica.     

In queste pagine in fin dei conti colse l'occasione per introdurre il volto del Giappone: “culto del passato; santità della famiglia; orgoglio di razza; idolatria della Patria; venerazione della Natura; amore dell'arte, coraggio fisico; disprezzo della morte; alto senso del dovere; garbatezza dei modi; gioia di vivere; semplicità di costumi”, quella era una nazione sorretta da “illuminati” che portavano “successi” grazie “alla influenza magnetica della natura divina dell'Imperatore ed alla protezione taumaturgica dei suoi Antenati solari”.

Una particolare attenzione non poteva non rivolgerla proprio all'aspetto mistico-religioso partendo dai luoghi sacri di Ise:  
“Ise è il grande centro mistico dello 'Scintò' che significa letteralmente «La Via degli Dei». 

Nello 'Scintò' si condensa e si sublima quella nebulosa vita spirituale dei giapponesi che forma all'atto pratico lo spirito dell'Impero. 

Il Sintoismo non è una religione vera e propria pur essendo la Religione di Stato del Giappone. È, più che altro, uno stato d'animo che si esprime nel culto della Natura e degli Antenati; confuso il primo col culto del Giappone «contrada bella e divina»; confuso il secondo col culto dell'Imperatore e dei suoi Divini Predecessori i quali, inanellandosi nel tempo l'uno all'altro attraverso la lunghissima catena della Dinastia, si allacciano mitologicamente ai primissimi Imperatori leggendari dai regni secolari e al capostipite supremo, l'Imperatore - Dio solare, figlio di A-ma-te-ra-su, Dea del Sole. Il Sintoismo non possiede né Dogmi né Libri Sacri né un Codice Morale. Etere magnetico del sub-cosciente del popolo giapponese, costituisce il fondamento mistico della nazione”. 

Gli “alberi” e il “suolo” poi sono “l'elemento primordiale della loro maestà mistica” mentre il Buscidò è “uno stato spirituale di fervore interno proiettato all'esterno” mediante il quale “tutti i giapponesi bruciano di adorazione per la sacrosanta persona dell'Imperatore e sentono di essere personalmente «superiori» agli uomini di tutte le altre razze, così come il Mikado è infinitamente «superiore» a tutti gli altri Re ed Imperatori del mondo!”; in questo modo si fissava quella che era la “perennità” della “Casa Imperiale”, la “perennità” del Giappone e quindi dei giapponesi i quali, tutti, avevano una qualche “molecola” della “divinità” e tutti avevano un legame con “S. M. Hiroito, 124° della Dinastia Solare” ossia colui che “era in contatto arcano coi divini Antenati, i Figli del Sole” e proprio coi defunti il legame si faceva inteso, inossidabile: “Le città dei  morti sono luoghi di convengo e di distrazione per i vivi i quali in Giappone non hanno affatto quel terrore o quella ripulsione dei cimiteri che è abituale in Occidente. Morti, vivi e nascituri formano in Giappone un unica grande famiglia concatenata nello spazio, nel tempo e nella coscienza della moltitudine”.