lunedì 21 luglio 2025

A PIEDE LIBRO n. 86 - Mircea Eliade Breve storia della Romania e dei rumeni - Mircea Eliade

A PIEDE LIBRO n. 86
Intima ed irregolare rubrica Libraria - Anno IV

BREVE STORIA DELLA ROMANIA E DEI RUMENI 

L’origine è quella indoeuropea, II millennio a.C., furono i Traci, i Geti e i Daci a popolare quelle terre. 

Erodoto e l’Imperatore Giuliano ne parlarono come uno dei popoli più eroici mai conosciuti, Strabone rimase affascinato dalla semplice e virtuosa vita da loro condotta; Platone, citando la divinità getica Zalmoxis, ricordava che corpo e anima andavano tenute nella tessa considerazione. “I Geto-daci erano biondi e di taglia media e portavano i capelli lunghi”, si vestivano grosso modo con quelli che sono tuttora i vestiti tradizionali della Romania, oramai andati in disuso ma che all’epoca di Eliade venivano indossati dai contadini con una certa frequenza. 

La società dacica era essenzialmente rurale, ma quella popolazione aveva una straordinaria maestria nella lavorazione dei metalli, delle ceramiche e del legno, tutte arti che sono rimaste nel tempo in quella che è stata la storia della Romania. Popoli caucasici quali i Cimmeri, e mediorientali quali gli Sciiti, o i Greci stessi influenzarono la civiltà dei traci, i quali subirono progressivamente varie invasioni o confusioni etniche, come quelle illiriche, italiche-villanoviane, celtiche, poi romane.

Il primo sovrano di cui Eliade da notizia fu Dromichaites, il quale, durante il III sec. a.C., fece fronte contro i Macedoni. 

L’arrivo dei Celti portò a una frantumazione del suo regno lasciato in eredità. Fu il re Burebista per primo ad unificare i vari principati sotto un’unica corte, era il I sec. a.C., poi arrivarono i Romani. Cesare aveva in mente di penetrare in quei territori ma non fece in tempo, fu assassinato, in ogni caso le legioni romane erano arrivate al di là del Danubio, il salto era vicino ma la resistenza dei Daci era forte, lo era talmente da infliggere più di una sconfitta all’attaccante nella regione della Moesia, dove le loro scorribande andavano a colpire gli abitanti della provincia di Roma. 

La tregua tra il re Decebalo e l’Imperatore Domiziano portò a dei rapporti e a scambi molto più stretti tra Romani e Daci, una graduale romanizzazione fu quindi avviata ma l’area rimaneva lo stesso insicura, potenzialmente pericolosa per la stabilità dell’Impero che ormai aveva proiettato le sue mire su quelle ricche terre. 

La prima battaglia del 101-102 d.C. fu vinta dalle truppe di Traiano; Decebalo rimase sconfitto nella sua capitale Sarmizegethusa, nel sud-ovest della Transilvania, e fu costretto a chiedere la resa ma è dopo il secondo conflitto, avvenuto tra il 105 e il 106 d.C., che la Dacia a tutti gli effetti fu trasformata in una provincia romana. Decebalo si tolse la vita, la colonizzazione prese il via grazie ai tanti cittadini dell’Impero che là si trasferirono, provenienti in particolar modo dalla Dalmazia e dall’Italia. 

La lingua latina si diffuse presto in quei luoghi, anche se la popolazione continuò a mantenere lo stesso i propri costumi e le proprie tradizioni. 

La pressione dei Goti, dei Carpi e dei Daci liberi andò però via via aumentando cosicché l’Imperatore Aureliano decise di riportare la frontiera al Danubio tra il 271 e il 274 d.C., ciononostante, vuoi anche perché i cittadini romani rimasero sul posto, l’influenza di Roma si fece sempre sentire anche nel secolo di occupazione dei Goti, ossia fino al IV secolo quando andò quasi completandosi la cristianizzazione che avvenne, al contrario che altrove, in modo spontaneo, senza forzature e violenze. Inoltre proprio a quell’epoca quelle terre iniziarono ad esser chiamate Romania. 

Il terribile arrivo degli Unni nel 375 d.C. fece scappare le genti nei boschi e nelle alture (“Il bosco è fratello del rumeno” dice un antico proverbio), dopodiché l’invasione dei germanici Gepidi fece ritornare alla normalità le cose quasi un secolo dopo. Nel VI sec. ai Gepidi si sostituirono i Longobardi che poi lasciarono spazio agli Avari, preferendo l’Italia come meta d’approdo.

In tre secoli di invasioni, i rumeni ebbero come punto di riferimento Costantinopoli, sia a livello politico che culturale, difatti la Dacia fece parte dell’Impero Romano d’Oriente, ma la crisi in atto da tempo fu anche la causa di un “ritorno alla preistoria”; riemersero le aristocrazie contadine e l’arte tornò a rifarsi alle “tradizioni stilistiche autoctone pre-romane”. 

La gran massa di Slavi che si introdusse nell’est europeo nel VII secolo - al contrario degli altri barbari conquistatori stanziatisi in numero esiguo anche in Dacia - avrebbe potuto mettere in serio pericolo l’autenticità romena e invece nell’XI sec. l’assimilazione si compì. 

La “continuità etnica” era stata preservata e la Romania rimaneva la roccaforte della latinità nella parte orientale del continente; un baluardo che resse anche il colpo dei Magiari nel IX secolo. 

Fino ad allora quella terra era stata chiamata in tanti modi: Scythia dai romani laddove avevano vissuto gli Sciiti, oppure Dacia Felix; Gothia nel periodo d’occupazione dei Goti ma pure successivamente; poi Sclavonia quando vi si stanziarono gli Slavi, mentre il termine romeni andò divulgandosi soprattutto nel X secolo. 

Il distacco da Bisanzio nel 1186 fece nascere l’Impero bulgaro-romeno che ebbe breve vita (1197-1258) ma appunto l’Asia stava travolgendo il Vecchio Continente nel secolo XIII. I due principati di Muntenia e di Moldavia, per quanto possibile, fecero da argine all’avanzata dei Tartari, puntellando i territori con rocche, castelli, armi, truppe. Terminata quell’ondata, quel dominio, incombeva un altro pericolo: l’Islam. 

Gli Arabi entrarono in Spagna nell’VIII sec., fermati poi da Carlo Martello e Carlo Magno in Francia; i Turchi l’assalto lo tentarono nel XIV secolo dalla parte opposta e nell’uno e nell’altro caso la già fragile unità europea venne meno, tant’è che in seguito caddero la Serbia e la Bulgaria davanti alle avanzate islamiche e solo dopo 5 secoli tornarono a liberarsi. 

Bisanzio, il Voivoda di Muntenia (Mircea il Vecchio) e il re d’Ungheria Sigismondo strinsero una alleanza: sferrarono l’attacco nel 1396 al turco Bayezid ma furono sconfitti. Nel 1397 i turchi passarono al contrattacco ma furono battuti più volte dai romeni, Mircea conosceva molto bene le tattiche dei suoi avversari ed anche in inferiorità numerica riusciva a spuntarla, inoltre davanti all’avanzata nemica l’intera popolazione si rifugiava negli impenetrabili boschi, sui monti e si faceva terra bruciata del terreno perduto. 

Tuttavia quello che era diventato il più grande difensore della cristianità e dell’Europa, nel 1417, dovette arrendersi a Mohammed, il figlio di Bayezid. Da lì in poi il principato di Muntenia e successivamente quello di Moldavia furono costretti a pagare un tributo annuale ai vincitori. 

Dal 1442 a riprendere le redini della difesa fu Giovanni Corvino di Transilvania - “il più audace dei paladini di Cristo” disse di lui papa Callisto III – il quale sbarrò la strada anche verso Belgrado. Gli succedette il famigerato Vlad l’Impalatore che per il nemico sconfitto non mostrò alcuna pena; fece fuori i prigionieri impalandoli senza contrizioni, cosicché Maometto II infuriato iniziò a maturare la sua tremenda vendetta. 

Se il fratello di Vlad, Radu il Bello, cercò un accordo col sultano, di fatto sottomettendosi, un altro condottiero, Stefano il Grande (1457-1504), il più grande nella storia di Romania, combatté una quarantina di battaglie a tutela delle sue terre e indirettamente per quelle occidentali, regnate da sovrani impotenti ed indifferenti. 

Costantinopoli cadde nel 1453 ma Stefan cel Mare, ormai l’ultimo baluardo del cristianesimo ortodosso ad est, cercò di rilanciare lo spirito delle Crociate, non riuscendoci. Una volta battuto il Regno ungherese sul campo, nei pressi di Vaslui si consumò una delle vittorie tra le più importanti contro i turchi; correva l’anno 1476, il suo esiguo esercito dai boschi assaltò il grande esercito nemico che fu eliminato.

Maometto II aveva occupato la Moldavia - già provata dalle invasioni Tartare - distrusse Suceava, Neamt, Hotin, dopodiché arrivò quella sconfitta dovuta pure ad una terrificante epidemia in corso. 

La pratica dell’impalamento fu ripetuta in pubblica piazza contro alcuni di coloro che avevano promesso un sostanzioso pagamento per la loro liberazione. 

Stefanl cel Mare disse: “Se siete tanto ricchi, perché avete invaso il mio povero paese?” e feste nazionali e preghiere di massa furono indette. 

Il voivoda invitava i regnanti degli altri Paesi ad intervenire: “Se questa porta sarà violata […] allora l’intero mondo Cristiano correrà un grande pericolo”. Nominato ‘Athleta Christi’ dalla Chiesa per le sue imprese a favore del Cristianesimo, si ritrovò inascoltato, l’Europa rimaneva una realtà soltanto geografica. Anzi, Ungheria, Polonia e Venezia strinsero degli accordi di non aggressione con gli ottomani: “Se Dio non vuole ch’io venga aiutato, allora accadrà di certo una di queste due cose: o questo paese perirà, oppure sarò costretto dalle circostanze ad arrendermi ai pagani. Cosa che non farò mai, perché preferirei piuttosto morire centomila volte” scrisse al Doge lamentandosi per quello che considerò un tradimento a tutti gli effetti. Stefano il Grande si trovò completamente isolato, riuscì a contenere i successivi attacchi che venivano da Oriente mentre altri scontri coi polacchi si susseguirono. 

La morte di Stefan nel 1504 fece cedere quel fronte in modo graduale; il mussulmano Solimano nel 1526 conquistò il Regno d’Ungheria, che si ritrovò a quel punto spezzato in tre parti; la Transilvania, la Moldavia e la Muntenia pur mantenendo una loro autonomia erano obbligate a pagare dei tributi al vicino turco. 

Tuttavia non terminava la successione dei grandi comandanti, tra gli altri Michele il Coraggioso, sovrano di Muntenia dal 1593, per prima cosa si ribellò alla tassa imposta, batté gli islamici e riunì sotto il suo controllo l’intera Romania nel 1600, dopo aver preso la Transilvania, “la grande passione della mia vita” disse, e aggiunse: “È stato con grande difficoltà che ho risollevato il mio povero paese, per farne uno scudo per l’intera Cristianità”. 

L’unione durò poco, Michele fu tradito, nel 1601 fu ucciso e l’instabilità e la frantumazione politica presero il sopravvento ma il XVII secolo fu pure il secolo di un grande slancio culturale ed artistico, in quanto le influenze occidentali, dopo secoli di influssi più che altro orientali, tornarono a ripresentarsi. 

Politicamente parlando l’Occidente si risvegliò quando gli ottomani assediarono Vienna nel 1683, quindi Buda fu liberata nel 1686, i Romeni strinsero rapporti sempre più forti con i moscoviti in grande espansione, corsero in loro aiuto in senso militare più volte; in breve però i Turchi sostituirono i governanti romeni con altri forestieri, prevalentemente greci, la nobiltà romena affrontò un periodo di grossa decadenza, gli austriaci comprarono dai Turchi parte della Moldavia che chiamarono Bucovina (da Bucov – grande foresta), mentre i Russi arrivarono nella regione dopo aver scacciato i turchi nel 1812, regione che chiamarono Bessarabia. 

Dal 1784 si moltiplicarono le ribellioni contro l’Impero austriaco e le famiglie che poterono permetterselo, pur di salvaguardare la propria identità, mandarono i loro figli in Italia per studiare la storia della Romania e il latino. 

Poi le rivolte del 1821 guidate da Vladimirescu, quelle del 1848 di Avram Iancu in Transilvania, alle quali seguì la riunione della Muntenia e della Moldavia nel 1859 grazie al principe Alexander Cuza, ma quel che era la Romania dell’epoca dipendeva sempre da troppi estranei che condizionavano i governi locali, in questo modo al trono arrivò il tedesco Carlo di Hohenzollern il 10 maggio 1866. Nel 1877 una nuova guerra tra turchi e russi diventò l’occasione per Carlo di dichiarare l’indipendenza dopo la vittoria sugli ottomani a Plevna, poiché i moscoviti avevano reclamato l’intervento dei romeni per le insuperabili difficoltà militari.

Era il 1877 anche se la proclamazione del Regno avvenne soltanto il 10 maggio 1881. 

Nel 1914 gli succedette il nipote Ferdinando, scoppiò la Prima Guerra Mondiale e i romeni si schierarono con inglesi, francesi e italiani; si voleva riscattare le terre irredente solo che nel 1917 l’attacco degli austro-ungarici, la resa dei russi dopo la Rivoluzione d’Ottobre e la presa del potere dei bolscevichi mise in condizione di nuovo i romeni di lottare su più fronti, contro l’Impero di Vienna e contro i comunisti. 

La capitolazione diventò inevitabile. Il vento però stava cambiando di nuovo, il 27 gennaio 1918 nacque la Repubblica di Moldavia su quella che era stata chiamata Bessarabia, abbandonata dai russi allo sbando. Dopo qualche mese austriaci e tedeschi erano ormai in rotta. Il 27 marzo la Moldavia si unì alla Romania, il 28 novembre fece la stessa cosa la Bucovina, il 1° dicembre toccò alla Transilvania, ed è questa la data che è tuttora presa in considerazione per la festa dell’unità nazionale. 

Tuttavia le tensioni non finivano là: nel 1919 la rivoluzione comunista in Ungheria, comandata dall’ebreo Béla Kun, incendiava ancor gli animi. I militari di Romania entrarono a Budapest, cacciarono i rossi, “Era la seconda volta che i Romeni soffocavano una rivoluzione comunista in Centro-Europa; la prima era stata la rivolta delle truppe russe in territorio romeno”; arrivò dunque il Trattato di Vienna, sottoscritto da Mussolini e da Hitler, e la Romania dovette cedere di nuovo a Mosca la Bessarabia. Carlo II fu messo in condizione di lasciare il trono, le sue ambiguità politiche e il suo passato di regnante stonavano con il nuovo processo politico del Paese, gli subentrò Michele I nel 1940, la Romania si affiancò alle armate tedesche e italiane per l’Operazione Barbarossa e riconquistò le terre da sempre irredente a spese dei sovietici. 

Eliade concludeva l’excursus storico della sua Patria con una frase che pare avere alcuni appigli con gli accadimenti di oggi: “La guerra contro i Soviet non ha un significato solo spirituale, quello di difendere gli assetti cristiani ed europei dal fanatismo eurasiatico; essa implica anche un elemento geopolitico europeo: la libertà internazionale del bacino danubiano”.         
 
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“Os romenos latino de oriente” fu pubblicato nel 1943, quando Mircea Eliade era consigliere culturale all’ambasciata romena in Portogallo, Paese con il quale la Romania condivideva la latinità e dei discreti rapporti diplomatici, anche se il Portogallo continuava a rimanere storicamente legato all’Inghilterra, nonostante il suo affermato governo nazionalista. 

Pure per questi motivi la sua ricostruzione storica si fermava là, in pratica all’accenno del blocco anti-sovietico - perciò alla sottintesa Operazione Barbarossa - che ricordava l’antico bastione romeno ad est, ed escludeva tutte le propagande militari e politiche possibili.

Proprio in quegli anni Eliade stava lavorando ad un’altra sua opera: “Il mito dell’eterno ritorno”, che diventerà un lustro dopo uno dei suoi saggi più preziosi mai usciti. 

Come si vede, il titolo originale del testo è differente da quello della versione italiana preso in considerazione nel post di ieri, ma a parte questo cosa voleva trasmettere lo studioso rumeno con queste pagine?

Intanto faceva notare che il centro propulsore della Romania era quasi sempre stata la grande regione della Transilvania, ma soprattutto che quello rumeno era stato un “miracolo storico” perché quelle lande avevano retto agli urti millenari di tanti aggressori. 

La stessa antichissima arte della lavorazione del legno rifletteva questa mentalità storicamente precaria: “intagliare legno non è la stessa cosa che scolpire marmo”, difatti i “Romeni crearono per il momento effimero piuttosto che per l’eternità” ma queste creazioni erano solo apparentemente ripetitive, in realtà avevano una infinità di varianti tipiche di quel popolo.

La perenne instabilità, la “tragicità” degli eventi subiti e ai quali si era reagito, il “terrore continuo” degli attacchi:  “Questi popoli non hanno respiro, non conoscono la calma e la gioia di ‘creare nel tempo’”. La loro fu una guerra lunghissima, a difesa di se stessi e dell’intera Europa. 

È ugualmente esistita per due millenni una “Continuità territoriale e razziale fra i Geto-Daci e i Romeni. 

Il fatto che nella Transilvania Settentrionale si siano conservate certe tradizioni popolari può essere spiegato solo riferendolo alla protostoria dei Geto-Daci”. Una continuità linguistica nella latinità, come rilevato da Matteo Bartoli: “se la parola in questione è presente nella lingua romena, allora siamo autorizzati a credere che fosse un vocabolo d’uso comune presso il popolo romano”; nella religione: “Il cristianesimo romeno raccoglie una duplice eredità: rurale e colta. 

Dei Geto-Daci i Romeni conservarono il disprezzo della morte, la credenza nell’immortalità dell’anima, la serenità di fronte alla sofferenza; dai Romani assimilarono il gusto dell’ordine e della gerarchia, l’equilibrio spirituale e la mancanza di fanatismo”; nel modus vivendi dato “L’amore che il popolo romeno ha sempre nutrito per la propria terra”, strutturando così la propria società sulla propria cultura rurale.  

La “gentilezza, la tolleranza, l’ospitalità” invece erano tutte virtù del popolo, acquisite in risposta alle barbarie subite nel tempo da coloro che conquistarono o provarono a conquistare le loro terre.

Questa antica sofferenza inter-generazionale si era riversata in tanti altri aspetti della civiltà: lo stesso termine “dor”, difficile da tradurre in italiano, esprime la “malinconia di essere lontani dalla propria gente, la nostalgia dopo la gioia dei giorni perduti, ma anche l’ardente desiderio di una cosa certa”, dunque “doina” non era altro che “una canzone lenta, malinconica, colma di tristezza”. 

L’essenza della ruralità unì più che mai queste genti nell’arte, in uno specifico stile identitario, in una lingua che non ha mai avuto un linguaggio nobile e uno popolare; quell’idioma valeva per tutti, indistintamente. 

Ecco perché i migliori loro letterati, quali Eminescu, Sadoveanu, Creangă, Odobescu, Iorga, Părvan, Haşdeu, Sadoveanu, Rebreanu, Arghezi, poco conosciuti all’estero, “tutti hanno attinto alla spiritualità del popolo romeno, al suo cristianesimo, alla sua filosofia della vita e al suo atteggiamento esistenziale”.

Anche l’approccio alla morte era la risultante di tutte queste visioni, tradizioni, ed era esso stesso Tradizione: la morte era una presa di coscienza, riscontrabile specialmente nelle leggende di Mastro Manole e di Miorita; la morte come sacrificio e liberazione, rintracciabile in Eminescu e in tutti gli altri autori, tuttavia il trapasso non voleva dire “svanire nel nulla, né come un’esistenza pseudo-larvale in un inferno sotterraneo e tanto meno come una tormentata sopravvivenza tra cielo e terra; al contrario, è vista come un matrimonio mistico mediante il quale l’uomo viene reintegrato nella natura. La morte non è uno sminuimento dell’essere umano; ma, al contrario, ne è un accrescimento, dal punto di vista metafisico, naturalmente. L’uomo non dovrebbe sfuggire la morte né tanto meno lamentarsi del suo sopraggiungere; la morte è un fatto di portata cosmica, che deve essere accettato serenamente e persino con gioia, perché grazie ad essa l’individuo si libera di vincoli e limiti terreni”.   

Pur non sempre puntuale, questo saggio rimane un piccolo gioiello di Mircea Eliade, uno dei tanti lasciatici in dono o al massimo al prezzo di un libro.