venerdì 23 maggio 2025

A PIEDE LIBRO n.141 - Il romitaggio della dimora illusoria - Basho

A PIEDE LIBRO n.141
Intima ed irregolare rubrica libraria

IL ROMITAGGIO DELLA DIMORA ILLUSORIA 

“Anche numerosi uomini dei tempi antichi morirono in viaggio. Io pure, non so dire da quando, albergo nel cuore l’inestinguibile desiderio di vagare attratto dal vento che sospinge le nuvole sparse”.

Matsuo Bashō (1644-1694) è stato uno dei più famosi poeti giapponesi. Dopo una formazione militare da samurai diventò monaco Zen. Ebbe tanti nomi d’arte nella vita, il più popolare fu appunto quello di Bashō che vuol dire banano.

La sua fu una scelta singolare, legata a questo tipo di pianta regalatagli da un suo allievo e visto che il banano fa i suoi frutti solo a temperature alte, e non essendo quindi adatto al clima del Giappone, Matsuo, scegliendo questo pseudonimo, aveva voluto presentarsi agli altri come un poeta inutile, superfluo.

Compose numerose poesie, da sempre viene considerato il maestro per eccellenza della forma poetica nipponica chiamata ‘Haiku’ (di cui ho parlato nei numeri 108 e 109 di questa rubrica), ma scrisse anche diversi diari di viaggio, perché la sua vita fu un continuo peregrinare, alla ricerca dei luoghi antichi dimenticati, di quelli sacri, sulle tracce di grandi artisti e santi che lo avevano preceduto:

“sul Fiume Eccelso. «Qui» mi dicono «sono sparsi i semi di antichi haikai: pensiamo con nostalgia agli inobliabili fiori del passato e con l’animo addolcito dal suono dei flauti di giunco cerchiamo a tentoni di avventurarci lungo questo sentiero, sia pur incerti se scegliere il vecchio o il nuovo, poiché nessuno ci guida»”. 

Ma cosa è un Haiku? “Gli haikai sono fastidiosi, come erbe sul sentiero della vita” diceva Bashō, il quale però non diceva la verità; quelle piccole e graziose liriche non potevano arrecare fastidi a nessuno, allora con modalità puntuali è il curatore di questa pubblicazione a spiegarlo:

“Poesie formate da tre versi di cinque, sette e cinque sillabe. Emistichio iniziale (hokku) di versi incatenati chiamati ‘renga’, alla cui composizione concorrevano diversi autori; gli haikai si svilupparono in forma autonoma grazie a Sōkan e a Moritake al  principio del XVI secolo. Originariamente haikai (di cui haiku è oggi il termine più usato) significava «buffo» e tale ne fu il soggetto fino alla divulgazione di Gosan, in cui Teitoku Matsunaga (1571-1653) ne fissava nuovi canoni per la composizione. Essi tuttavia, come scrisse Ryūnosuke Akutagawa «erano dotati di minor musicalità delle poesie tradizionali. Bisognava attendere un uomo dotato come Bashō affinché nell’essenzialità di diciassette sillabe si potesse esprimere la musicalità delle parole»”. 

Matsuo aveva abbandonato dieci anni prima la città, era un cinquantenne che aveva sentito il bisogno di vivere come un eremita sulla montagna Kokubu, in una capanna chiamata “Dimora Illusoria”, già appartenuta ad un altro anacoreta.

Dal suo povero e spoglio alloggio, Bashō poteva vedere tante cime, tra le più importanti del suo Paese. Era lontano da tutti, così vicino alla sua terra. Gli bastava muoversi poco e la sua vista coglieva altre immense naturali bellezze, ma la sua indole lo costringeva a non sostare troppo in un posto, il suo era un costante romitaggio tra le meraviglie della sua nazione. Vestito umilmente, armato di carta e pennello, strumenti mediante i quali trascriveva i suoi haiku che poi regalava, viveva grazie all’aiuto dei suoi discepoli e di coloro che erano disponibili e solidali, ma altrettanto spesso si arrabattava, mangiava in modo frugale, giaceva in letti rimediati in stamberghe tutto fuorché accoglienti. Santoni, farfalle, api, luoghi stupendi del Nippon, piogge, campi in fiore, il celebre pino di Takekuma, eroi, leggende, divinità, antichi sovrani, Shintoismo, Buddismo, lo Zen - che non a caso tra i suoi principi fondamentali ha il vivere, il dipingere e il poetare - il mitico Fujiama - un vulcano potenzialmente ancora attivo e che eruttò violentemente l’ultima volta nel 1707 - il viaggio inarrestabile proseguiva tra grandi e piccole meraviglie spesso sfuggenti ai più.

“Non intendo dire, con questo, che io mi nasconda tra prati e montagne perché odi il mondo e ami la solitudine. Sono piuttosto simile a chi, fragile di salute, evita il contatto con la gente. Ripenso agli anni e ai mesi infelicemente vissuti, e alle colpe commesse a causa della mia inadeguatezza: tentai inutilmente di ottenere benefici da un ufficio governativo o di varcare la soglia di un monastero; ora tempro il mio corpo abbandonandolo a venti incostanti e vapori, mi affatico l’animo per cogliere la bellezza di un fiore e di un uccello: da qualche tempo questo è divenuto un mezzo per sopravvivere: sebbene sia privo d’ingegno e di talento ho finito con il legarmi a questa forma di esistenza”.

Quindi sono tantissimi i nomi di luoghi evocativi di un Giappone che in pochi hanno visto: la vetta dei Neri Capelli, il tempio della Luce del Sole, il tempio della Luce Splendente, la Palude delle Ombre, il Tumulo Nero, il Monte del Tenue Profumo, il Cerchio della Luna, la Tonda Collina, la Collina delle Azalee, i Campi Preziosi, il Fiume dei Gioielli, il Giardino delle Grotte, il Ponte dell’Estinzione dei Lacci, la Montagna con Fiori d’Oro, il Porto Spirale di Pietra, le acque termali del Bambino Piangente, il Monte delle Piume Nere, il Monte della Luna dove si forgiavano delle spade particolarmente resistenti e micidiali, la Collina delle Gru, la Laguna degli Elefanti, il Monte dei Fiori di Lepre, la Valle dei Ricci di Castagne, il Tempio della Eterna Pace, il Pozzo della Felicità, il Tempio del Drago Celeste, “Oggi ho valicato i passi più ardui delle province settentrionali chiamati con nomi quali Incurante dei Genitori, Incurante dei Figli, Ritorno dei Cani, Rinvio dei Cavalli” ecc.

Quale frescura
sul Monte delle Piume Nere 
con una luna di solo tre giorni!

Picchi di nuvole
l’un dopo l’altro si disfano
sul Monte della Luna.

Per l’ineffabile
Padiglione dei Lavacri s’intridono
di lacrime le maniche.

Lacrime
calpestando monete sul sentiero
verso il Monte del padiglione dei Lavacri.

In questa semplice quanto particolareggiata narrazione c’è spazio anche per un episodio comico.  Due “donne di piacere”, in pellegrinaggio al santuario Ise, chiedono a Bashō e al suo compare di essere aiutate, di essere salvate: “È doloroso viaggiare come noi, ignare del cammino; vorremmo seguirvi, sia pur a distanza. In virtù della compassione che la vostra tonaca deve ispirarvi”. La risposta fu categorica, furono scaricate seduta stante senza tante cerimonie: “Sovente noi sostiamo ora qua ora là. Sarà meglio per voi seguire chi si dirige direttamente alla vostra meta. Con la protezione della Luce Divina non potrà accadervi nulla di male”.  

Il cammino procedeva:
 
Per tutta la notte
onde il vento
ha sollevato
e gocce di luna stillano
i pini di Valico di Marea

“scorgo un ciliegio alto appena tre piedi con metà dei boccioli dischiusi. Com’è commovente lo spirito di quei tardi fiori che, sia pur sepolti dalla neve, non hanno dimenticato la primavera! Mi sembra di percepire il  profumo dei fiori di prugno nella calura dell’estate”.
Ogni paesaggio, ogni cosa che apparteneva all’antico Giappone, pareva essere così minuscola, simile a un piccolo acquerello dai dettagli però grandiosi, così completi nelle loro molteplici sfaccettature. 
Lo spostamento era pure una continua ricerca delle proprie ataviche radici: “ho dinanzi una indiscutibile traccia millenaria, mi pare di scrutare con i miei occhi l’animo degli antichi. Ecco uno dei pregi del pellegrinare, una gioia dell’esser sopravvissuto: dimentico la fatica del viaggio, mi spuntano persino lacrime agli occhi”. 

Capire il Nippon significa poi comprendere quel che vi era al centro dell'Estremo Oriente, ossia la “consuetudine del nostro Paese che lo spirito divino possa manifestarsi persino sulla polverosa terra di una strada remota come questa, provo un profondo sentimento di riverenza”, così come essenziale fu sempre il susseguirsi delle stagioni, che scandivano il tempo come null'altro a confronto:      

Triste è separarci d’autunno
divisi un due 
come bivalve mollusco

C'è una sostanziale differenza tra l'arte poetica d'Occidente e quella d'Oriente, lo rilevò Ryūnosuke Akutagawa (1892-1927), autore del racconto Rashōmon, da cui fu tratto il celebre film di Akira Kurosawa: “L’essenza della poesia orientale, giapponese o cinese che sia, è sovente la pittura. Gli occidentali, la cui poesia ha tratto origine dall’epos, probabilmente etichetterebbero come eterodossa la «pittura  verbale»”. 

Ci sta infine un altro aspetto sollevato sempre da Akutagawa, a proposito della presunta omosessualità di Bashō: “L’omosessualità non è rara in quegli anni. Persino noi, nati nel ventesimo secolo, se ripensiamo alla vita sessuale della nostra fanciullezza ci rendiamo conto di aver conservato almeno un ricordo di un’estatica infatuazione per un bel giovinetto”. 
In realtà nel Nippon l'essere omosessuale, per certi versi, era la messa in pratica di un maschilismo portato ai suoi limiti, ma qui il discorso andrebbe troppo oltre.