martedì 20 maggio 2025

A PIEDE LIBRO n.110 - La Crisi di Budda - Mario Appelius - Prima parte

A PIEDE LIBRO n.110
Intima ed irregolare rubrica libraria.
(Prima parte)

LA CRISI DI BUDDA 

La Cina, negli anni Trenta, era diventata un po' quello scacchiere dove si giocava la partita principale tra Oriente ed Occidente: in “una società internazionale governata dalla Logica la Cina sarebbe ripartita tra le maggiori nazioni del mondo sotto forma di mandati temporanei”, questo perché il vasto territorio cinese era almeno dagli inizi del secolo nel caos più profondo, soltanto che ormai gli occidentali non erano in grado di fare fronte comune e ciò era dovuto soprattutto all'imperialismo inglese e alla sua arroganza. 

Se il futuro della Cina era del tutto indecifrabile, si poteva lo stesso star certi che un eventuale confronto col mondo estremo orientale avrebbe visto cinesi e giapponesi uniti contro i popoli di “razza bianca”, sebbene diversi se non reciprocamente ostili avrebbero creato un blocco insormontabile. 

Per questo motivo i governi d'Occidente avrebbero dovuto più che altro riorganizzare le altre parti del mondo e stringere delle relazioni con l'est asiatico e in particolare con la Cina, il più grande produttore di materie prime al mondo che però, nonostante tutto, soffriva vertiginosamente di debiti, visto che le importazioni superavano di gran lunga le esportazioni, e proprio il Giappone cogli anni, scalzando americani ed inglesi, era diventato il più importante esportatore per i cinesi. 

L'Impero Celeste aveva ceduto sotto il peso dei tempi, nel 1911 si era schiantato definitivamente e ne era conseguita una grande spaccatura tra il Nord e il Sud del Paese, diversi per costumi, mentalità e storia; il primo storicamente conquistatore, conservatore, burocratico, militarista; il secondo conquistato, riformista, “socialistoide”, rivoltoso. 

Il grande territorio era così caduto in una guerra civile mastodontica, si trovava sotto il giogo delle più svariate fazioni politiche, dei più raffazzonati eserciti, composti di “morti di fame”, “di briganti specializzati nei saccheggi e di minchioni rastrellati sui marciapiedi ed obbligati a fare i soldati” e che nascevano repentinamente guidati da militari improvvisati o di professione, del banditismo, della corruzione più dilagante, del contrabbando e delle droghe, mentre le grandi masse, prive di un sentimento nazionale, erano vittime di una profonda apatia e la emergente classe dirigente, apparentemente più preparata, sembrava scollata dalla realtà ed aveva abbandonato le materie letterarie e spirituali per quelle tecnico giuridiche. 

L'incredibile susseguirsi degli eventi, dei protagonisti, degli avventurieri, dei capi – popolo, delle criminalità , dei colpi di mano, dei contrasti tra i governi di Pechino e di Nanchino, rendevano inestricabile, incomprensibile, perfino folle quel che stava accadendo. 

Il millenario impero cinese, nato nel 2698 a. C., aveva lasciato delle tracce indelebili nelle generazioni ma il suo schianto era stato un “vero cataclisma storico perché ha travolto tutta una civiltà” e ad approfittare della confusione ci provavano un po' tutti, dai russi agli occidentali, ai nipponici, con esiti spesso bizzarri.    
       
Ciang - Kai – Shek, a capo del Kuo-Ming-Tang, sembrava essere il personaggio che qualcosa poteva raddrizzare in quella madornale anarchia, aveva l'appoggio ambiguo di varie parti, compreso quello di Mosca che operava grazie al suo intermediario Borodin, anche se poi il Generale proseguì per la sua strada entrando in conflitto proprio coi comunisti cinesi. 

Come sappiamo alla lunga Ciang non resistette nel lungo periodo e al suo posto nel dopoguerra la ebbe vinta Mao che però Appelius non menziona affatto nella sua opera, anche se bisogna tenere in conto che Mao in quegli anni era uno dei tanti capi, o aspiranti tali, di quella bolgia dove le spese maggiori che ognuno di loro doveva affrontare erano quelle militari, per le quali si generavano diffuse corruzioni e continui saccheggi di ogni sorta.

Detto ciò ad Appelius era più che evidente che la Cina aveva delle potenzialità gigantesche, ammirevoli quanto preoccupanti, perché una volta riorganizzato il Paese, disciplinato, rimesso in riga da governi stabili e dalle acquisizioni della Tecnica e delle tecnologie occidentali, avrebbe espresso tutta la sua enorme e prorompente forza.   

Preceduto da una breve presentazione del Conte Galeazzo Ciano, ex Ministro d'Italia in Cina, “La Crisi di Budda” è il resoconto di un altro intensissimo viaggio, il terzo in Asia, del corrispondente Mario Appelius, il quale inizia la sua impresa lasciandosi alle spalle lo stretto di Malacca, la Malesia e Sumatra per penetrare nel fiume Azzurro e in quello che all'epoca era il più grande paradosso mondiale. 

Il suo fu un peregrinare che durò altri due anni nell'Asia più orientale, tra il 1933 e il 1935. 

Per quell'occasione decise di cambiare e di viaggiare nell'anonimato, evitando alberghi e comodità e lasciando da parte le interviste ai grandi nomi, sia perché, a detta sua, il lettore se ne infischiava di certi personaggi, sia perché gli intervistati avrebbero detto in ogni caso solo quel che era loro conveniente, come sempre.

Shanghai fu la prima tappa: una Babele che vedeva ammontinate folle su folle, dove vivevano francesi, inglesi, i 30.000 mila russi sfuggiti alle vendette dei bolscevichi e che sopravvivevano nell'attesa speranzosa di ritornare a casa prima o poi, ma i tempi ormai avevano sfiancato le loro illusioni. 

L'Esercito Bianco era stato sconfitto a suo tempo, quindi lo scenario era radicalmente mutato e degenerato. 

Diffusa era la prostituzione delle bellissime donne russe ridotte a vendere il proprio corpo al primo giallo di passaggio, in tanti altri erano oramai caduti in una depressione irreversibile e attendevano solo di morire nell'inedia (“come il Bolscevismo abbia potuto trionfare in Russia. In mezzo a milioni di temperamenti senza volontà alcuni cervelli volitivi hanno imposto la loro” spiegava l'autore). 

Quella metropoli di luci sfolgoranti non dormiva mai, là vi risiedevano 3 milioni e mezzo di abitanti e l'alta finanza e le banche ingurgitavano quel che capitava loro a tiro.

Poi per le stradine antiche di Sen Tsen tra gli artigiani della giada, dopodiché alle fumerie di Hang-Ciau dove per la prima volta provò l'oblio dell'oppio, in un locale dove dolci donne agghindate offrivano  uno speciale e tradizionale contorno cerimoniale per i clienti, specialmente per quelli che disponevano di denari. 

Appelius andò fino in fondo per la prima ed unica volta nella sua vita: “mi sveglio in un altro mondo. Mi pare d'essermi allontanato dalla Terra” in una stanza separata dagli altri e gli altri rappresentavano tutti i ceti sociali: benestanti, generali, lavoratori, molti di loro avevano il fisico prosciugato dal fumo e gli organi vitali sulla via del collasso. Shangai era anche la metropoli dei sequestri di persona, una pratica di importazione poiché molto in voga a quei tempi a Chicago, cosicché, se tante famiglie facoltose avevano la residenza nella grande città orientale, molti preferivano vivere negli alberghi per non essere le vittime di questo crimine, visto ciò, le compagnie di assicurazione proliferavano grazie ad un ragguardevole giro di affari che si muovevano grazie a queste azioni delittuose.

A Cia – Pei Appelius si trovò, come in tante altre occasioni, di nuovo di fronte alla triste realtà della prostituzione delle donne bianche, specialmente russe; una tratta micidiale che faceva gola per i profitti che si potevano trarre dalla gestione di 3-4 ragazze almeno per volta, giovani donne che, se sopravvivevano allo sfruttamento e ai maltrattamenti, dopo 10 anni ritornavano in Patria con un gruzzoletto di soldi, tuttavia le russe neanche quello potevano permettersi, riducendosi ad una  schiavitù mortale; in ogni caso coloro che arrivavano alla fine di questo percorso erano ben poche.

Tutte erano ben sparpagliate in tutta la grande Cina, sia nei piccoli centri dove i bordelli erano amministrati anche dai greci, sia in quelli grandi dove a condurre le attività ci stavano pure i nordamericani. “Il giallo che è grottescamente cerimonioso con le prostitute della sua razza, anche se d'ultimo rango, diventa prepotente e volgare quando un sudicio biglietto di banca gli procura il possesso d'una femmina bianca […] Di tutto ciò naturalmente i varii Julots se ne strainfischiano. Si dichiarano internazionalisti, magari comunisti. Qualcuno si considera addirittura benemerito della fratellanza delle razze”.

Da Shiangai passò alla semidistrutta città di An – King coi suoi 500 mila abitanti; il centro abitato era un po' lo specchio delle Cina fatiscente, di una Cina che stava per morire, sostituita da un'altra tutta da inventare. Di italiani lo scrittore ne incontrò ben pochi, perché pochi ce ne stavano in quella parte di Mondo, eppure quei connazionali, che avevano deciso di intraprendere una vita completamente diversa, sapevano il fatto loro perché dal niente avevano avviato delle attività redditizie. 

Uno di loro lo incontrò per fare la grande risalita del fiume Azzurro, effettuata con una ferraglia che si chiamava ironicamente “Sempre a galla”; l'emigrato era un imprenditore tuttofare del nord Italia che aveva costituito una compagnia di navigazione e che sapeva destreggiarsi come nessuno in quel trambusto di masse.

Dopodiché si ritrovò all'incrocio con il fiume Han e Yang – Tse dove si affacciavano tre grandi città Han – Kau, Wu Ciang e Han – Jang ossia le cosiddette “città di Wu – han”, tutte zone, come altre, dove russi e tedeschi, a seguito della Grande Guerra, avevano perduto potere e controllo e dove gli inglesi avevano sciupato anche il loro prestigio oltre a rinunciare alla concessione di Han – Kau. 

La navigazione risultava essere un vero cimento sia per la estrema difficoltà del viaggio, vista la natura impervia che andava affrontata, del resto il Dragone non perdonava con le sue correnti, i suoi scogli, le sue oscurità, sia per i pirati che puntavano le imbarcazioni nordamericane ed europee, le quali erano costrette spesso a procedere con delle scorte armate. 
       
Poi a Ciung – King, nella “città dei quattro odori” ovvero la “città più fetente del globo”, la più “sudicia” e “fradicia”, dove regnavano l'oppio, la povertà e l'elemosina, lo sfruttamento minorile. Wan – Ciég invece era la città più xenofoba, per qualche anno occupata dai comunisti, là l'odio per i bianchi era stato insegnato come forse da nessuna parte, era un agglomerato urbano governato dal Generale Cieng, padrone della più grande produzione dell'oppio, signore di un 1/5 del territorio nazionale, “Se poi a cinque chilometri dalle rive del fiume i «rossi» incendiano i villaggi e battono moneta, ciò non ha praticamente in Cina nessuna importanza” visto che fondamentale era la “tranquilla circolazione delle navi e delle cannoniere sul fiume”.

Appelius continuava il suo viaggio e i suoi incontri anche di persone altolocate a Wu – Ciang. 

A proposito di italiani incontrati rimane tra le più significative la storia di Rosina che si era maritata con un cinese di buona famiglia, “credendo ingenuamente che d'amore si possa vivere si possa vivere ovunque. Ma anche l'amore ha una tinta. E non è uguale dappertutto”, quel rapporto, da alcuni giornali locali francesi e dai benpensanti, era stato innalzato a mo' d'esempio come riprova dell'eguaglianza delle razze e dei popoli, di fatto le cose andarono molto diversamente. Rosina si ritrovò a vivere rapporti umani, usanze e in zone che ben presto la fecero sentire sola e straniera. Dovette subire anche l'onta di accettare ed accogliere ben tre concubine dentro casa sua, in quanto solo la terza donna riuscì a dare alla luce il tanto ambito figlio maschio; malgrado tutte le sue dedizioni si ritrovò a trascorrere una vita “miserabile”: “Le donne mangiavano a parte, in una tavola più bassa, secondo l'abitudine dei cinesi per i quali la donna è un essere inferiore.

I servi passavano loro i resti degli uomini. Fra le donne, Rosina”.

Si mise sulla strada verso la necropoli dei Ming, dove si trovavano sepolti 13 dei 17 imperatori della grande dinastia, al centro vi era il sepolcro del Yung – Lo il più popolare dei loro. Le tombe antiche in tempi di Repubblica non venivano quasi più conservate, a parte questo quel che si percepiva è che mentre le altri grandi Civiltà antiche avevano messo in piedi costruzioni ciclopiche per sfidare il Tempo, in Cina la parte predominante l'aveva la Natura e difatti i monumenti si adattavano ad essa che veniva rielaborata  e riordinata dalle mani umane: “È indiscutibile però che se la Civiltà cinese è sotto molti aspetti  nettamente inferiore alla Civiltà occidentale, viceversa ha raggiunto in altri campi altezze che la nostra non ha ancora toccato”. Perciò un altro caposaldo della loro cultura rimaneva il culto degli Antenati: “i chioschi, i templi, le terrazze, i ponti, gli steli votivi, gli archi sospesi nel vuoto, i boschetti, gli stagni, i sedili, le rocce artificiali modellate dalla mano dell'uomo, tutte le forme e tutti i colori, tutte le cose e tutti i simboli esprimono un solo pensiero: la pace della Morte: della morte concepita buddisticamente secondo lo spirito cinese, senza terrore, senza inferni, senza terribili tribunali divini: conclusione naturale della vita: riassorbimento dei defunti nella grande Ombra dalla quale sono venuti. Tutta la coreografia delle tombe è stata concepita per dare ai vivi che le visitano la sensazione della grande pace finale” e “Qui gli imperatori venivano al solstizio d'inverno per compiere il rituale sacrifizio al Cielo, loro padre. Era la suprema cerimonia dell'annata” ed era eseguita nel più inflessibile rispetto delle regole cerimoniali e degli sfarzosi paludamenti indossati. “Nove circoli concentrici tracciati sul pavimento indicavano al «Figlio del Cielo» il punto esatto nel quale doveva collocarsi per entrare geomanticamente in contatto magnetico con i suoi Antenati celesti […] Solamente l'imperatore restava in piedi. Con gli occhi rivolti verso l'azzurro pregava l'Azzurro”.

Pechino rappresentava il trapassato remoto, anche qua la Repubblica sembrava aver abbandonato a se stessa la città, ormai triste, misera, senza speranza di riprendersi e che una volta era il centro della raffinatezza artistica estremo - orientale, ma Schiangai e Nankino, con tutto il loro caos , stavano spadroneggiando, tutto però a Pechino “ricorda che questa era la capitale dell'ordine stilizzato in formule ed in numeri […] Sotto i vostri occhi è spiegata una delle città più antiche del mondo, già centro politico di primissimo ordine duemila nni prima della venuta di Cristo, quando imperava sulla Cina la dinastia Hsia. Otto secoli prima di Giulio Cesare, sotto la dinastia Chiú, Pechino era già uno dei pilastri della civiltà asiatica, baluardo di frontiera contro i barbari delle steppe mongole e siberiane. Nel XII secolo sotto la dinastia Chiú è capitale di una monarchia potente. Nel 1264 il famoso Kublai Khan ne faceva la Ciúg-tú, cioè la «residenza centrale» dell'Impero del Mezzo. Con la dinastia Yuan e con la dinastia Ming raggiunge l'apogeo del suo splendore. È il massimo centro politico, artistico e filosofico dell'Asia. L'imperatore Yung-Lo la chiude come un gioiello in un immenso cerchio di mura che misurano quaranta chilometri di lunghezza. Il Grande Canale, lungo mille chilometri, la allaccia al Fiume Azzurro ed al lontano Setciuan.