FREDERICH GEOG JÜNGER, ERNST JÜNGER -GUERRA E GUERRIERI. DISCORSO DI VERDUN.
Due fratelli, due uomini d’azione e di pensiero che hanno segnato il Novecento, il secolo della guerra, perché la “guerra è l’evento che ha dato la fisionomia al volto del nostro tempo”, abbattendo le barriere tra la società civile e lo status militare, cambiando persino il linguaggio con l’adozione di termini sempre più comuni, quali “concentrazione”, “razionalizzazione”, meccanizzazione, massificazione, “centralizzazione”, “standardizzazione” ecc.
Friedrich Georg e Ernst Jünger sono stati riuniti in questa interessante pubblicazione a distanza di 49 anni l’uno dall’altro e se lo scritto di Friedrich Georg risale al 1930, il discorso di Ernst è del 1979.
Il primo era un pezzo scritto per una antologia curata da Ernst uscita appunto nel 1930, che prese il titolo dal breve saggio del fratello (“Krieg und krieger” – “Guerra e guerrieri”), mentre le parole sulla pace furono pronunciate da Ernst il 24 giugno 1979 a Verdun, quando oramai un conflitto in Europa sembrava non solo non essere minimamente auspicabile ma anche addirittura impensabile, nonostante le frizioni di un’altra guerra in atto, quella “fredda”.
Queste 5 decadi costituiscono un arco temporale che sembra aprire e chiudere la discussione sulla guerra, certo non in modo definitivo vista la mutazione dei tempi e degli uomini e vista la variabilità e l’imprevidibilità degli accadimenti.
Quell’antologia conteneva saggi firmati da autorevoli intellettuali dell’epoca oltre a quello di Ernst Jünger, “Die totale mobilmachung” (“La mobilitazione totale”); nel suo complesso trattava la questione del “nazionalismo tedesco” il “cui segno peculiare è dato dall’aver perduto tanto l’idealismo dei nostri nonni quanto il razionalismo dei nostri padri.
La sua posizione è piuttosto quella di un realismo eroico” ossia di una “manifestazione esteriore”.
Friedrich ed Ernst, all’interno di una possibile “Rivoluzione Conservatrice”, tentavano di dare sostanza alle parole e alle azioni per fermare la deriva nichilistica della modernità.
Solo che la confortevole modernità ha portato con sé la normalità della violenza, nei media, nella comunicazione, nell’arte, nella cultura.
L’illusione del Progresso e la maschera di un linguaggio pacifistoide, vuoto quanto insensato, si scontra tuttora con la realtà evidente dei fatti.
Rimane quindi più che mai una concretezza la frase di Wolfgang Sofsky: “la violenza crea il caos e l’ordine crea la violenza”, sebbene sia la violenza che la guerra nei secoli si siano modificate completamente, condizionando le società, orientandole verso una distruzione totale, verso l’annientamento.
Si configura perciò, oggi come ieri, la figura del soldato – operaio, rotella di un meccanismo di proporzioni abnormi, annullato in una organizzazione sociale complessa, ben strutturata e dalle maglie strettissime.
Friedrich Georg, ex combattente nella Grande Guerra come il fratello, constatava che quell’immane tragedia aveva assuefatto le persone alla violenza, ma di per sé si era manifestata come un gigantesco “processo lavorativo”, un “tormento assoluto”, dove l’antica fascinazione della lotta era andata perduta perché era stata privata di qualunque “epos”, dove la “clemenza” era stata sostituita da “qualcosa di inumano, di smisurato, di gigantesco”, traducibile in “immagini di una volontà di annientamento”.
Friedrich Georg, ex combattente nella Grande Guerra come il fratello, constatava che quell’immane tragedia aveva assuefatto le persone alla violenza, ma di per sé si era manifestata come un gigantesco “processo lavorativo”, un “tormento assoluto”, dove l’antica fascinazione della lotta era andata perduta perché era stata privata di qualunque “epos”, dove la “clemenza” era stata sostituita da “qualcosa di inumano, di smisurato, di gigantesco”, traducibile in “immagini di una volontà di annientamento”.
Ecco perché a distanza di anni l’entusiasmo popolare per la Prima Guerra Mondiale appariva il frutto di una incomprensione totale di massa e, sebbene lo stato di crisi fosse evidente già da tempo prima, tutto si acuì una volta alzate le armi: “anarchia”, la “decomposizione delle arti”, “l’incapacità di ritenere valido sia ciò che è estraneo, sia ciò che è proprio”, il “crollo totale dell’individualismo” ecc.
Eppure è sempre dallo stato di pace che nasce una guerra, perché è nella pace, spesso iniqua, che si rigenerano i focolai della rivolta, quindi furono i soldati stessi a scoprire sulla loro pelle “che la guerra in fondo era qualcosa di più giusto e più forte, di più originario e più autentico dello stato di pace che lo precedeva”, anche perché il pensiero umanitario si fondava e si fonda su un distaccamento dalla realtà, non avendo alcun “autentico rapporto con il dolore”; quel pensiero è una specie di viltà dettata dalle buone parole ed intenzioni, in cui il tutto viene appiattito in uno stato anestetico perché “non si vogliono più né eroi né destino”, quest’ultimo poi vien sostituito dalla “fatalità”; la guerra, privata di qualsiasi ragioni o motivazione irrazionale, viene ridotta semplicemente a “delitto”, giudicandola dal banco di un tribunale della morale che però non può avere un metro di giudizio per una guerra che di morale non ha nulla, ma che anzi riporta il tutto all’essenziale, a quel che è prioritario e vitale.
Allora “Ci sono molte forme dietro cui si nasconde l’incapacità di prendere decisioni; la massa delle argomentazioni, la passione per i bilanci, il pathos dell’accusa e i tentativi di giustificazione”, in contrapposizione si trova la “casta guerriera”, generatrice dello Stato, di “origine maschile”, mentre la “società dipende dall’elemento femminile.
L’istinto femminile per la democrazia” che quindi tende alla “società” che “strappa dalla mano dello stato la sua spada, gli sottrae il fascio e il bastone, lo assoggetta alle maggioranze, inserisce istituzioni di carattere pubblico e sociale”.
Nella fattispecie tedesca, secondo lui, lo Stato era rappresentato dal prussianesimo o meglio la “Prussia rappresenta la forma originaria” del Reich, dunque “compito della casta guerriera è la lotta per il Reich” e il “senso della guerra è la lotta per il Reich”.
Infine Friedrich Georg chiuse le sue riflessioni con una premonizione che si tramutò nei fatti e che avrà ulteriori ed inevitabili riscontri : “Il futuro è oscuro a sufficienza per dare adito a paure che si spingono molto lontano. Forse ciò che è avvenuto è solo un preludio, il semplice ingresso sulla scena di quelle forze che hanno aggredito l’essere umano in modo pressante e che ci fecero uscire dalla dimensione continentale e dal provincialismo dei conflitti iniziando uno scontro di dimensioni planetario”.
Cinquant’anni dopo, Ernst Jünger cancellò quella terminologia, adottata in altre fasi della sua vita.
Cinquant’anni dopo, Ernst Jünger cancellò quella terminologia, adottata in altre fasi della sua vita.
I tempi erano del tutto cambiati, in Europa tirava il vento di una pace ad oltranza, ma in realtà il suo personale processo di cambiamento era stato avviato già sotto il nazismo e in particolar modo durante la tragedia della Seconda Guerra Mondiale, quando in modo clandestino, a suo rischio e pericolo, aveva fatto circolare il suo libello “Pace”.
L’anniversario era quello della terrificante battaglia di Verdun del 1916, una carneficina che durò dal 21 febbraio al 19 dicembre.
Al noto pensatore Ernst, che di scontri armati nella Prima Guerra Mondiale ne aveva collezionati molti, così come di ferite riportate, fu chiesto di rappresentare la parte tedesca per quella specifica commemorazione; si voleva trasformare quel ricordo in un atto pacifista al quale il filosofo ex-soldato partecipò esprimendosi così: “In modo manifesto già allora l’età delle guerre nazionali stava volgendo al termine. Tale fine era annunciata dalla ostinazione dei combattimenti, dalla loro durata quasi illimitata, dal loro spegnersi senza alcun successo strategico […] Allora, quando ci stringevamo nei crateri prodotti dalle bombe, credevano ancora che l’uomo fosse più forte di ciò che è materiale. Questo si è dimostrato un errore” ma la cesura più netta e irreversibile ci fu con le due bombe atomiche sganciate degli americani sul Giappone, a quel punto la “storia sembrò perdere il suo senso”, era “la fine della guerra classica con la sua gloria, da Achille ad Alessandro, Cesare a Federico il Grande e a Napoleone”.
Il materialismo aveva stravinto, la corsa all’annientamento subì una pesante accelerazione, quando invece l’uomo dovrebbe essere sempre “misura di tutte le cose”, al contrario con la modernità l’uomo diventa più che mai pericolosamente “manipolabile”, in quanto ridotto “a cifra”.
Il materialismo aveva stravinto, la corsa all’annientamento subì una pesante accelerazione, quando invece l’uomo dovrebbe essere sempre “misura di tutte le cose”, al contrario con la modernità l’uomo diventa più che mai pericolosamente “manipolabile”, in quanto ridotto “a cifra”.
La sua conclusione non poté che esser questa:
“L’essere umano impara poco la storia – altrimenti la Seconda guerra mondiale come molte altre guerre ancora ci sarebbero state risparmiate” e allora “non dobbiamo forse trovare un inizio planetario”?
“L’essere umano impara poco la storia – altrimenti la Seconda guerra mondiale come molte altre guerre ancora ci sarebbero state risparmiate” e allora “non dobbiamo forse trovare un inizio planetario”?
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